Dal controllo al potere
di Aldo Capitini
Come passare dal controllo al potere? Il controllo, nelle sue tre forme: informazione esatta,
critica adatta, progettazione progrediente, è già potere; accrescere l’una o l’altra delle forme,
secondo la propria capacità, è sviluppare l’omnicrazia.
Alcuni sociologi distinguono il “potere” dalla “autorità”, nel senso che il primo è la probabilità
che la volontà vinca gli ostacoli che incontra, la seconda è la probabilità che un gruppo trovi
obbedienza per i suoi comandi. Ma noi, che non consideriamo che l’ambito sociale, possiamo mettere in disparte il fatto semplice della volontà individuale che riesce a realizzare qualche cosa. Qui dobbiamo vedere come il controllo si fa potere entro la società, o acquista “autorità”.
Usiamo, dunque, il termine in senso generico: il potere come capacità di realizzare progetti
(tra cui proporre norme), con la probabilità di vedere realizzati i progetti e le norme ubbidite.
Qui interviene, con un suo contributo, la persuasione della compresenza in questi due modi:
1. se i progetti e le norme hanno un fondamento evidente e puro nella realtà di tutti, è più probabile che essi incontrino il consenso di molti; la persuasione della compresenza e della omnicrazia è una garanzia che pesa a favore dell’accettazione dei progetti e delle norme, quindi esse hanno un potere, in virtù non del loro riferimento all’interesse individuale, ma di un riferimento alla realtà di tutti;
2. esiste un ordine sociale che è la convivenza di tutti e non è il semplice interesse individuale;
n persuaso della compresenza e dell’omnicrazia può tralasciare la difesa di tale ordine sociale in
quanto egli teme di sottoporre tale ordine al proprio vantaggio individuale, e può tralasciare di
vedere la difesa dell’ordine sul piano della guerra, la quale oramai viene condotta come strage e
può arrivare all’uso, oltre che delle armi chimiche, delle armi nucleari, il che deforma ogni carattere umano della lotta. Ma rimane il semplice ordine sociale come convivenza pubblica, come rispetto di quelle istituzioni che spesso sono strumenti del potere di tutti. E qui è possibile collaborare con chi usa quelli strumenti coercitivi che sono semplicemente applicati a frenare e sviare l’individuo che attenti a tali “strumenti che sono di tutti”, e che non segua, quando potrebbe, la pressione intima della compresenza che lo indurrebbe a tale rispetto.
Mentre non è possibile collaborare sul piano della guerra o guerriglia, che porta a stragi, terrorismo, tortura, cioè ad una violenza che prende mano rispetto al motivo originario, è possibile stare accanto a chi semplicemente usi la violenza entro stretta disciplina di giovare alla convivenza di tutti nella loro evoluzione, una violenza in ambito modesto, strettamente condizionata dai modi (quante armi si possono usare che non uccidono!), accompagnata costantemente da un soffio omnicratico; il persuaso della nonviolenza può, personalmente, non usare nemmeno questo tipo di violenza, se il suo compito è di richiamare costantemente al fine; ma comprende che c’è violenza e violenza, e quella per mantenere la convivenza di tutti è più giustificata di ogni altra.
Io non potrei stare in un governo che può dichiarare la guerra, ma non avrei difficoltà a stare in
un’amministrazione di ente locale. Questo rispetto dell’ordine locale:
1. non significa accettazione dell’ordine costituito, da difendere ad oltranza, ma il riconoscimento che si può mantenere la convivenza nonviolenta tra gli abitanti di una località, che è ambito modesto, mentre si può, nello stesso tempo, portare avanti la rivoluzione nonviolenta con le sue tecniche per trasformare le strutture e tutta la situazione locale;
2. mette in primo piano l’”ente locale” (in Italia la borgata, la frazione, il comune, la provincia,
la regione), perchè in queste dimensioni può meglio realizzarsi l’ispirazione nonviolenta e omnicratica, nella diretta conoscenza delle persone e dei problemi, nella permanente democrazia diretta, ricca di profondi motivi etici ed educativi, e aliena da imperialismi atomici!