di Christoph Baker*
“Christoph, scrivi qualcosa sulla bellezza!”. L’invito è allettante. Dopo tutto da un po’ di tempo viviamo in una marea di brutture. Dal marciapiede sotto casa al fiume che scorre lì vicino, dai cieli grigi di smog alle immagini di guerra che passano alla tivù: è il trionfo della spazzatura reale e morale.
Si ha un bel dire che non bisogna mollare, che è importante resistere, che passeranno anche questi tempi bui.
Ma se non si ha qualche spiaggia incontaminata, qualche isola felice su cui rifugiarsi, allora anche la resistenza è solo un lento suicidio. E non si può più appellarsi solo alla forza della ragione per allontanare le nuvole nere che si addensano all’orizzonte dei nostri sogni.
Abbiamo tutti un grande bisogno di essere ancora stupiti, meravigliati, sconvolti dalla vita, come quando da bambini ci catturava il volo delle farfalle, il vento che scompigliava l’erba alta nei prati incolti, il sole che tramontava in mezzo ai palazzi come l’occhio di un dio allegro che ci salutava e ci diceva di stare tranquilli, che domani sarebbe stato un altro giorno.
Ma poi i giorni sono diventati anni e il lento scorrere del tempo ci ha portato nelle paludi dell’abitudine, della routine. Di quel quotidiano così riempito di programmi, di cose da fare, di appuntamenti e scadenze, da farci smarrire il giusto sentiero, dimenticando di alzare la testa ogni tanto per vedere dov’eravamo diretti.
Finché un giorno ci ha colto la desolazione delle cose intorno a noi e la dèbacle dei nostri affetti.
Allora ci aggrappiamo alle poche cose rimaste a portata di mano, quasi sempre avvolte nei tessuti soffici della memoria , laddove il tempo ha fatto il suo lavoro di pulizia, lasciando che gli angoli si smussino, che i dettagli stonati sfumino e, guarda caso, che rimanga un quadro di colori ed emozioni coinvolgenti.
Non c’è niente da fare: l’essere umano ha bisogno della bellezza nella sua concezione più completa.
Come rapporto con la propria vita, come richiamo alle cose essenziali, come sentimento di appartenenza a qualcosa più grande di noi.
Certo, l’essere umano tende naturalmente a fare riferimento alle impronte della propria specie.
Si riconosce facilmente nell’opera dei suoi simili, che essa sia architettonica, artistica o gastronomica.
Non nascondo un mio senso di profonda appartenenza alla specie umana, quando si tratta di condividere il frutto della creatività e del genio dell’uomo. Una ricetta sublime nella sua semplicità (che so’? una spigola all’acqua pazza), un quadro di Rouault, la linea eterea di una Bugatti 57C Atlante, o ancora una bottiglia di Château de Beaucastel 1959… Per non parlare del tesoro che rappresentano la musica e le canzoni. Sono tutte cose, queste, che mi riempiono il cuore, oltre ad appagare i miei sensi.
Eppure, ho avuto la fortuna di scoprire che ci sono cose extra umane che possono altrettanto scombussolarmi, e farmi perdere le mie sicurezze. Sarà forse dovuta al fatto di essere cresciuto in campagna, se oggi sento un legame così forte con la natura. Più che la reazione alla distruzione dell’ambiente che io ed i miei simili andiamo compiendo da sempre (e oggi in modo sempre più micidiale), è la sconvolgente bellezza di Gaia che mi prende per mano. Spesso, è stata lei a farmi uscire dalla retta via.
Non ho mai saputo ignorare il richiamo ancestrale della foresta, della montagna o (e soprattutto) del mare aperto.
Lungo il cammino della mia vita, la natura ha saputo offrirmi stupore, meraviglia, sgomento e paura.
E anche i paesaggi più domestici, come le colline del Senese, toccano direttamente il cuore, senza cadere nelle fogne della ragione. Quindi, a maggiore ragione (!) i dirupi vertiginosi delle Alpi, la maestà oscura del Schwarzwald, o il sortilegio dell’Atlantico a Sud della Groenlandia. Vi sono, stampati nella memoria, immagini forti di tempeste oceaniche, nebbie che viaggiano alla velocità del giaguaro, venti essenziali e crudeli, soli infuocati e senza misericordia.
Vi è nella gratuità di queste cose la prima lezione di comunione con la vita; prima di quando,
crescendo, cominciamo ad accettare tutte le codificazioni che ci inculcano a scuola. Infatti
bisognerebbe sempre tenere ben presente il danno inflitto a Bach, Rembrandt, Shakespeare o Botticelli da certi riduzionisti della didattica! E poi gioire del fatto che non sono riusciti ad ammazzarli completamente….
La bellezza rimane fonte primordiale di creatività. Sì, certo, anche l’obbrobrio, la bruttura,
la nullità, il grigiore possono scatenare in noi un senso di ribellione liberatrice. Ma rimane sempre l’estetica la vera dea dei nostri sentimenti, quella che guida la voce del cuore, delle viscere, dell’anima verso un domani danzante e cantante, che ci parla di armonia, di pace, di condivisione dell’invisibile; finché, trasportati dalle emozioni, troviamo anche noi qualche piccolo guizzo, qualche ispirazione, qualche pennellata improvvisa che porta un po’ di sole nelle nostre gabbie abituali.
Ecco perché è così duro andare avanti in mezzo al brutto, sopravivere senza il richiamo della bellezza.
Ci viene a mancare proprio il respiro vero nelle nostre vene. Certo, possiamo far finta; possiamo
scappare nei paradisi artificiali, scambiando lo schiamazzo per musica e i neon per aurore boreali.
Resterà però come un pugno nello stomaco per non aver più saputo trovare la via d’uscita da tanto squallore.
Da oggi dobbiamo aggiungere alla battaglia per i diritti umani, il diritto alla bellezza.
Dobbiamo rivendicare una valutazione di impatto estetico su tutte le azioni e le attività dell’uomo.
Dobbiamo introdurre nei piani regolatori e nei progetti di sviluppo l’occhio dell’artista, del poeta
e del contemplatore.
Abbiamo l’urgenza di non deturpare più l’ambiente che ci accoglie. Abbiamo il dovere di smantellare ciò che ha reso un luogo brutto. Così capiremo l’indissolubile legame: l’estetica è la vera ricompensa dell’etica.
* Vive a Roma ed è autore di “Ozio, lentezza e nostalgia –
decalogo mediterraneo per una vita più conviviale”, Emi, Bologna, 2001.