Fondatore del Movimento Nonviolento in Italia….
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La vita di Aldo Capitini – biografia di Lanfranco Mencaroni
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Religione e nonviolenza in A. Capitini – di Antonio Vigilante
Rocco Altieri, La rivoluzione nonviolenta, recensione di Pasquale Pugliese
La democrazia, i partiti e il potere dal basso, di Aldo Capitini
La nonviolenza attiva per trasformare la società, di Aldo Capitini
La riforma religiosa e impegno per la pace, di Aldo Capitini
Le tecniche della nonviolenza attiva, di Aldo Capitini
Aldo Capitini, filosofo della nonviolenza, di Enrico Peyretti
Incontro con Aldo Capitini, maestro della nonviolenza, di Mario Martini
Sulla Marcia Perugia-Assisi del 2000, intervista impossibile ad Aldo Capitini
Le strade sono tante, la nonviolenza in cammino, di Mao Valpiana
Aldo Capitini: intelligenza del presente e profezia dell’impegno, di Ornella Faracovi
Un nonviolento aperto, libero, religioso
di Mao Valpiana
L’ho visto solo nelle poche foto in bianco e nero. Mi ha sempre piacevolmente stupito il contrasto tra quell’aria austera dietro gli occhiali spessi, ed il suo indomabile spirito giovanile, aperto ed innovativo, in perenne ricerca. Aldo Capitini muore il 19 ottobre del 1968. Trent’anni fa. Noi quarantenni di oggi non l’abbiamo conosciuto, eravamo ancora troppo piccoli. Di Capitini abbiamo sentito parlare solo qualche anno più tardi, ai tempi degli obiettori in carcere, della Legge 772, delle prime esperienze di servizio civile. Abbiamo scoperto così che non siamo stati i pionieri, ma che qualche decennio prima di noi un professore antifascista già difendeva l’obiezione di coscienza e organizzava le Marce per la Pace. Incominciavamo a muovere i primi passi nel campo sociale e politico, e leggere Teoria della Nonviolenza o Le Tecniche della nonviolenza ci faceva intuire quanto è vasto l’orizzonte della nonviolenza e ci invogliava a correre in avanti, per vedere un po’ più in là. I nostri coetanei preferivano le barricate, sognavano la guerriglia e sceglievano simboli con i fucili. Noi ci siamo affezionati al fucile spezzato che spuntava dalle pagine di Azione nonviolenta. Ci sentivamo vicini alla voglia “rivoluzionaria” di cambiamento dei tanti movimenti giovanili di sinistra, ma ci allontanava quel loro compiacimento della violenza, a volte “dolorosa ma necessaria”, altre volte “levatrice della storia”. Il percorso culturale e politico di Capitini, che abbiamo approfondito leggendo i suoi libri, ci sarà di grande aiuto. Scopriamo che già negli anni ’40, dopo l’esperienza comune del carcere come perseguitati politici, si incrina il rapporto tra Capitini e la sinistra. Lui che vuole realizzare il “movimento”, gli altri che fondano il “partito”. Lui, che fa esplicita scelta nonviolenta, gli altri che organizzano la rivolta armata. Verso la sinistra, il liberalsocialismo, manterrà sempre un atteggiamento di dialogo, di “aggiunta”. Nel dopoguerra non aderisce ad alcun partito, e così Capitini, che fu tra i primissimi ed i pochissimi a rifiutare da subito il fascismo e che tanto fece e patì durante il regime di Mussolini, venne lascito fuori dal Comitato di Liberazione Nazionale e dalla Costituente. Da solo inizia un lungo lavoro per l’affermazione del metodo della nonviolenza. Fino alla morte è attivissimo: fonda i Centri di Orientamento Sociale, il Movimento di Religione, il Centro di coordinamento internazionale per la Nonviolenza, la Società Vegetariana Italiana, l’Associazione per la difesa e lo sviluppo della Scuola pubblica, la Consulta Italiana per la Pace, il Movimento Nonviolento. Organizza convegni e seminari sui temi della pace, delle tematiche religiose, della scuola, della pedagogia. Scrive e pubblica moltissimo: La realtà di tutti, Nuova socialità e riforma religiosa, L’atto di educare, Il fanciullo nella liberazione dell’uomo, Religione aperta, Colloquio corale, Rivoluzione aperta, L’obiezione di coscienza in Italia, Battezzati non credenti, L’educazione civica nella scuola e nella vita sociale, La compresenza dei morti e dei viventi, Educazione aperta, Le tecniche della nonviolenza. Fonda e dirige anche due riviste: Il potere di tutti e Azione nonviolenta. Dobbiamo constatare che dopo tanti anni i lavori pratici ed intellettuali di Capitini restano sconosciuti ai più, ma le sue intuizioni sulla nonviolenza si sono in molta parte realizzate, mentre altre teorie e pratiche politiche sono rimaste sepolte sotto il Muro di Berlino. Il seme ha germinato. I casi della vita mi hanno portato oggi a condurre avanti questa rivista, voluta da Capitini per “aiutare noi e gli altri a chiarirci le idee in un metodo che è destinato a rinnovare profondamente la società umana (…). Il metodo nonviolento, straordinariamente dinamico, finisce per avere ragione e per trasformare le attuali società, che sono società di pochi, in una società veramente di tutti. Perché questa persuasione interiore diventi consapevole e largamente diffusa, è necessario lavorare”. Proseguire l’opera di Capitini è un compito davanti al quale ci si sente spesso inadeguati. Per aiutarsi bisogna ricorre ancora una volta al metodo nonviolento che esige prima di tutto “qualità di coraggio, tenacia, sacrificio e di non perdere mai l’amore”.
La vita di Aldo Capitini
religioso, antifascista, vegetariano, nonviolento
Biografia a cura di Lanfranco Mencaroni
Aldo Capitini nasce a Perugia il 23 dicembre 1899, in un piccolo appartamento, sotto la torre campanaria del Municipio, dove il padre, impiegato comunale, viveva come custode del campanile e addetto alle campane. Dalla finestra del suo studiolo si vedeva la grande valle umbra ai piedi del monte Subasio, con Assisi adagiata alle sue falde.
La madre era sarta e casalinga. Per la povertà della famiglia fu avviato agli studi tecnici, meno costosi.
Nel 1919, dopo aver conseguito la licenza dell’Istituto tecnico, si autofinanziò facendo il precettore e si sottopose come autodidatta agli amati studi classici, con un notevole sforzo fisico che, a causa della sua gracile corporatura, gli procurò un forte esaurimento.
Cosicché, come poi ricorderà, accanto alla conoscenza dei classici, di Leopardi, della Bibbia, conoscerà precocemente l’esperienza della finitezza della vita, del dolore fisico, dell’inattività forzata.
Nel 1924, l’anno in cui i fascisti assassinarono il deputato socialista Giacomo Matteotti e formalizzarono la dittatura, Capitini sosteneva da privatista l’esame di licenza liceale a Perugia.
Gli ottimi voti gli permisero di vincere una borsa di studio alla Scuola Normale Superiore di Pisa, diretta da Giovanni Gentile.
Si iscrisse in quella Università alla Facoltà di Lettere e Filosofia, dove conobbe grandi docenti antifascisti come Attilio Momigliano e Manara Valgimigli.
Nel 1928 conseguì la laurea a pieni voti e lode con una tesi su “Realismo e serenità in alcuni poeti italiani”.
Nel 1929 prese il diploma di perfezionamento con una tesi sui canti di Leopardi, seguita da Momigliano di cui diventa assistente volontario.
Dal 1930 al 1933 rimase come segretario economo alla “Normale” . Con numerosi docenti e normalisti inizia una attività antifascista e trasferisce la sua ricerca dalla letteratura alla filosofia, collaborando strettamente con Claudio Baglietto, nonviolento e obiettore di coscienza, motivo per il quale morì esule in Svizzera nel 1940.
Nel 1933, avendo rifiutato la tessera fascista, Gentile lo allontanò dalla Normale, e Capitini tornò a Perugia, nella casa del padre, dove vive poveramente con lezioni private fino al termine della guerra.
L’avversione al fascismo inizialmente morale divenne anche religiosa dopo il concordato raggiunto fra Mussolini e il Vaticano nel 1929. Il sostegno aperto offerto dalla Chiesa Cattolica allo stato fascista lo convinse a lavorare teoricamente e praticamente per il ritorno della democrazia e per una riforma religiosa.
Contro la violenza, ostentata quotidianamente dal fascismo e non contrastata dalla Chiesa, prese da Gandhi l’idea del metodo nonviolento impostato sulla non collaborazione, da Francesco d’Assisi il richiamo ai valori originari del cristianesimo, dal pensiero moderno quella che chiamò la serissima applicazione dei principi di libertà, di fratellanza, di eguaglianza.
Contro l’esaltazione e la preparazione delle guerre fasciste, divenne vegetariano, per marcare con decisione il rifiuto di uccidere gli esseri umani e subumani.
Continuò i suoi studi filosofici e, per il suo lavoro politico, prese contatti con gli antifascisti perugini, operai, artigiani, intellettuali e con quelli delle altre regioni, recandosi in molte città o accogliendoli a Perugia.
Nel 1937, con l’aiuto di Benedetto Croce, fu pubblicato il suo primo libro di filosofia e religione, “ELEMENTI DI UN’ESPERIENZA RELIGIOSA”, che sfuggì, per il suo tema, all’ignorante censura fascista, ma fu accolto con favore dagli intellettuali democratici.
Negli anni della dittatura fascista, scrisse altri tre libri: “VITA RELIGIOSA” nel 1942, “ATTI DELLA PRESENZA APERTA” nel 1943, “LA REALTA’ DI TUTTI” nel 1944.
Con questi quattro libri Capitini ricorda di aver già delineato in quel tempo una posizione teorico pratica di riforma, assolutamente nuova nel panorama del novecento italiano.
Nell’ultima parte degli “ELEMENTI DI UN’ESPERIENZA RELIGIOSA”, Aldo Capitini esponeva le idee del “liberalsocialismo”, un movimento che lanciò insieme al filosofo Guido Calogero. Sorsero ben presto numerosi gruppi clandestini di sostenitori, che tennero le loro prime riunioni a Perugia, ad Assisi, a Firenze: tra le molte adesioni ricordiamo quelle di Walter Binni, Norberto Bobbio, Cesare Luporini, Francesco Flora, Tristano Codignola, Carlo Ludovico Ragghianti, Ranuccio Bianchi Bandinelli. Nel 1940 comparve il primo manifesto del Movimento Liberalsocialista, redatto da Calogero.
Nel 1942 a Firenze, Aldo Capitini viene per la prima volta imprigionato per quattro mesi e insieme a lui molti aderenti al Movimento.
Nel maggio del 1943 a Perugia viene nuovamente imprigionato insieme a numerosi antifascisti e liberato per la caduta di Mussolini, dopo il 25 luglio.
Nell’agosto del 1943 a Firenze si riuniscono gli aderenti del Movimento Liberalsocialista per dar vita al Partito d’Azione. Capitini espone nello scritto “Orientamento per una nuova socialità” la sua posizione critica verso la nascita di un nuovo partito e la sua proposta che i gruppi liberalsocialisti rimanessero un movimento di opinione e di pressione politica.
Questa proposta non fu accolta, il Partito d’Azione fu fondato ma durò pochi anni: egli non aderì e rimase per tutta la vita liberalsocialista e “indipendente di sinistra”, definizione da lui coniata.
L’8 settembre 1944 segnò l’inizio per l’Italia della resistenza armata contro i nazifascisti.
I pochi persuasi della nonviolenza, come Capitini, nulla poterono organizzare – come lui stesso scrisse – di coerente, efficiente e conseguente a quella posizione: la lezione che ne trassero fu che bisogna preparare la strategia e i legami nonviolenti prima, per metterli in atto quando occorra, come sarebbe stato importante fare nell’Italia del 1924 o nella Germania del 1933.
L’entusiasmo per la vittoria delle armi e la scelta di Capitini di rimanere indipendente dai partiti, rinati alla democrazia, misero ben presto in ombra il ricordo della sua decennale resistenza non armata, efficace, estesa a tutta l’Italia, suggellata dalle due incarcerazioni.
La sua posizione politica di sinistra, ma critica dei totalitarismi e la sua figura di libero religioso nonviolento, critico dei dogmi e delle istituzioni vaticane, contribuirono al suo isolamento nel panorama italiano, che si polarizzava sempre più, sotto la spinta degli eventi internazionali, nei due schieramenti guidati dai cattolici e dai marxisti.
Liberata Perugia nel giugno 1944, Capitini, per tradurre nella realtà il suo atteggiamento liberalsocialista e il suo contributo teorico alla democrazia con il potere di tutti, già il 17 luglio apre in città il Centro di Orientamento Sociale, C.O.S., esperimento di assemblea bisettimanale per discussioni aperte a tutti, su tutti i problemi amministrativi e politici, alla quale venivano invitati, per ascoltare e parlare, dirigenti di partiti, amministratori, esperti di ogni tendenza.
I C.O.S., nel fervore della ritrovata democrazia, ebbero successo e si diffusero in Umbria e in Italia, soprattutto nelle zone d’influenza della sinistra.
Alcuni durarono fino a tre anni, poi si chiusero per la prevista e crescente insofferenza dei politici e degli amministratori a sottoporsi al controllo stretto degli elettori.
Nel 1946 Capitini dà il via anche al “Movimento di religione”. La riforma di Capitini tiene conto delle critiche mosse da quattro secoli di filosofia laica alle religioni tradizionali sia sul piano teorico che su quello storico delle origini e delle fonti; ma riafferma la verità e il bisogno di religione. “Il dolore, il rimorso, il pensiero della morte sono sempre veri; ed è qui che sorge la religione” scrive nel suo primo libro. La riforma chiama i religiosi ad aprirsi e incontrarsi in centri aperti, senza alcuna discriminazione tra battezzati e non battezzati, tra iscritti e non iscritti, tra cittadini e stranieri. Le parrocchie, le moschee, le sinagoghe, i templi, ecc. dovrebbero, aprendosi, diventare centri in cui poter vivere la comune religiosità nella “compresenza” di tutti, morti e viventi, “compresenza” che è, per Aldo Capitini, il luogo, il nome “plurale” di Dio, dove e quando, rivolgendoci a Lui, ci rivolgiamo a tutti.
Come ricorda Bobbio, “la ragione per cui, in Capitini, la battaglia contro la chiesa e la battaglia contro lo stato si confondono, si sovrappongono, è che il nemico è sempre lo stesso: il potere che viene dall’alto, anche se viene esercitato là con la coercizione spirituale, qua con la coazione fisica”. Nell’omnicrazia, nel potere di tutti, scrive Capitini, “è l’uomo religioso, post-umanistico, che vuole vivere unito con tutti nella massima solidarietà, anche al di là della morte, e perciò tende a costituire una società nuova in una realtà che abbia consumato tutti i vecchi limiti, compresi il dolore e la morte”.
Sul tema di questa riforma aperta e moderna si tennero, per iniziativa di Capitini, numerosi convegni in Italia, fino al 1954, fra i quali uno molto affollato a Roma nel 1948.
Nello stesso 1948 usciva il libro “IL PROBLEMA RELIGIOSO ATTUALE”.
La conquista del potere da parte dei cattolici, accaduta anch’essa in quell’anno, provocò la diminuzione di coraggio e d’interesse nel trattamento di un tema così rivoluzionario per l’Italia: le adesioni andarono calando, mentre, con la trasformazione della economia da agricola a industriale, si facevano largo gli allettamenti assai poco religiosi della società dei consumi.
Non diminuiva certamente l’impegno persuaso di Aldo Capitini, che dal 6 aprile del 1951 cominciò a spedire agli amici quelle “LETTERE DI RELIGIONE” che sono raccolte postume nel volume “IL POTERE DI TUTTI” e che nel 1952 aprì a Perugia il Centro di Orientamento Religioso, il C.O.R., per settimanali conversazioni di soggetto religioso, rimasto aperto a tutti e attivo fino alla sua morte nel 1968.
Dal 1946 era tornato a Pisa come incaricato di Filosofia Morale, poi dal 1956 insegnò pedagogia come professore universitario prima a Cagliari, poi a Perugia, nella quale aveva mantenuto la residenza.
Della “nonviolenza”, Capitini è stato senza dubbio, con libri e convegni, il più attivo studioso e propagatore, tanto da essere ricordato tuttora come il “Gandhi” italiano: nel 1949 pubblicava “ITALIA NONVIOLENTA”.
Dopo l’arresto e il processo di Pietro Pinna, il primo obiettore di coscienza italiano, Capitini iniziava la campagna a favore dell’obiezione di coscienza, e organizzò il primo Convegno italiano sul tema, che si tenne a Roma nel 1950.
Nello stesso anno uscì il libro “NUOVA SOCIALITA’ E RIFORMA RELIGIOSA”, ancora sui legami tra persuasione religiosa e impegno sociale e politico.
Nel 1951, usciva il primo libro di pedagogia di Capitini, “L’ATTO DI EDUCARE”. In esso cominciava a sviluppare la sua pedagogia, basata principalmente su quella che lui chiamava la “tensione” da trasmettere ai giovani per capire e rifiutare l’insufficienza della realtà in cui nasciamo e viviamo; una pedagogia di ribellione, quindi, e di lotta per quei valori che dovranno liberare la realtà dalla violenza e dall’oppressione, che la trasformeranno nella “realtà di tutti”.
A ricordare la morte di Gandhi, avvenuta il 30 gennaio del 1948, Capitini organizzò nel gennaio del 1951 a Perugia un “Convegno internazionale per la Nonviolenza” e in settembre un convegno di studi su “La Nonviolenza riguardo il mondo animale e vegetale”, dal quale ebbe origine la “Società vegetariana italiana”.
Nel 1955 Capitini pubblicò il testo di “RELIGIONE APERTA” con i temi di religione cui abbiamo accennato; l’8 febbraio il Sant’Uffizio lo pose all’Indice.
In risposta alla condanna, Capitini pubblicò nel 1957 il libro “DISCUTO LA RELIGIONE DI PIO XII” (il papa in quel tempo regnante), anch’esso posto all’Indice.
Dopo la morte di Pio XII°, con il pontificato di Giovanni XXIII° la Chiesa cattolica parlò di apertura nel Concilio Vaticano II°, ma la resistenza del vecchio apparato romano limitò lo slancio delle intenzioni e Capitini nel 1966 rinnovò ai cattolici l’incitamento a un’apertura molto più ardita e necessaria, attraverso il suo libro “SEVERITA’ RELIGIOSA PER IL CONCILIO”.
In seguito a un processo svoltosi a Firenze nel febbraio 1958, promosso dai coniugi Bellandi di Prato contro il vescovo cattolico della città, che li aveva accusati di essere “concubini” per essersi sposati soltanto con il matrimonio civile, processo seguito con molto interesse dall’opinione pubblica italiana già sensibile a certi temi, Capitini scrisse, imitato da una cinquantina di perugini, una lettera al vescovo di Perugia, chiedendo di essere cancellato dall’elenco dei battezzati, simbolo, a suo parere, di sudditanza forzosa all’autorità non più riconosciuta della Chiesa.
Sul tema Capitini scrisse nel 1962 un libro, “BATTEZZATI NON CREDENTI”.
Nel 1959 con altri docenti universitari fondava l’A.D.E.S.S.P.I. (Associazione per la difesa e lo sviluppo della Scuola Pubblica Italiana).
Nel 1958 usciva il libro “AGGIUNTA RELIGIOSA ALL’OPPOSIZIONE” in cui Capitini ribadisce la sua convinzione sull’insufficienza politica della sinistra, priva di una componente religiosa nonviolenta, e sulla utilità di un’aggiunta religiosa che aiuti l’opposizione a liberarsi dal compromesso con le vecchie tradizioni e i vecchi centri di potere vaticani, ad aprirsi ai grandi rivolgimenti mondiali, a lavorare per l’incontro fra libertà e socialismo, fra Oriente e Occidente.
Nel 1960 visitò a Barbiana il prete cattolico don Lorenzo Milani. Agli amici intellettuali che venivano a visitarlo, don Milani chiedeva di parlare ai ragazzi e di farsi interrogare da loro e da lui: cosa che fece anche con Aldo Capitini, concentrando domande e risposte sul tema della nonviolenza. Capitini, fra l’altro, promise di realizzare un’idea di don Milani: pubblicare un “GIORNALE SCUOLA”, pensato per la maggior parte dei lavoratori di allora, incapaci di affrontare letture difficili per la loro preparazione scolastica. Un giornale di un solo foglio, con un solo articolo per un tema importante e con il resto dello spazio dedicato alla spiegazione lessicale, geografica, storica, politica dell’articolo. Il “Giornale Scuola” fu pubblicato per quattro numeri mensili e diffuso in Umbria e in Italia da amici e conoscenti, con l’iniziale appoggio dei sindacati, poi venuto meno, per cui chiuse in mancanza di fondi.
Il 24 settembre 1961, organizzata dal Centro per la Nonviolenza, diretto da Capitini, si svolse da Perugia ad Assisi la I° Marcia per la Pace, che ebbe molto successo di partecipazione tra i lavoratori, i giovani e gli intellettuali di tutta l’Italia. Dalla Marcia presero avvio la “Consulta italiana per la pace”, che fu, sotto la presidenza di Capitini, una federazione delle organizzazioni italiane per la pace, il “Movimento Nonviolento per la pace”, il periodico “Azione nonviolenta” diretto da Capitini fino alla morte.
Sulla Marcia per la Pace, Perugia – Assisi, Capitini scrisse il libro testimonianza “IN CAMMINO PER LA PACE” pubblicato da Einaudi.
Gli anni ’60 videro Capitini proseguire nel suo discorso teorico e pratico sulla necessità di costruire “il massimo di socialismo insieme al massimo di libertà”, utilizzando naturalmente le “tecniche della nonviolenza”. Nel 1963 propose, insieme a un amico comunista, ancora una volta senza ascolto, la creazione a sinistra di una “corrente rivoluzionaria nonviolenta”.
Nel 1964, sui temi della partecipazione dei cittadini al potere, dei problemi della vita pubblica, dei mezzi e dei modi a disposizione dei cittadini per il controllo dal basso delle istituzioni, Capitini, insieme a un piccolo gruppo di amici, fondò a Perugia e diffuse in tutta Italia un mensile chiamato “IL POTERE E’ DI TUTTI”, che si pubblicò fino alla sua morte.
Fra i temi trattati: il controllo dal basso e il potere di tutti nell’economia e nella distribuzione del reddito, nelle fabbriche, in agricoltura, nelle città e nei villaggi, per le donne, nei sindacati, nel tempo libero, nelle scuole e nelle Università, nella sanità, nelle elezioni, nell’opinione pubblica, nei mass-media, per la pace, ecc.
Sui temi politici e civili a lui cari, sempre nel 1964, uscì il libro “L’EDUCAZIONE CIVICA NELLA SCUOLA E NELLA VITA SOCIALE” e nel 1967 fu stampato presso il libro sulle “TECNICHE DELLA NONVIOLENZA”.
Strettamente connessa al lavoro politico, che Capitini, come abbiamo visto, considerava la necessaria realizzazione della vita religiosa, proseguiva la ricerca teorica : nel 1966 fu pubblicata la summa del suo pensiero religioso, “LA COMPRESENZA DEI MORTI E DEI VIVENTI”, che ottenne nel 1967 il “Premio straordinario Viareggio”.
Per la pedagogia usciva, ancora nel 1967, “EDUCAZIONE APERTA”.
Il 19 ottobre 1968 Capitini morì a Perugia in seguito a un intervento chirurgico.
Nel libro postumo “IL POTERE DI TUTTI”, uscito nel 1969 sono raccolti la sua ultima opera politica “Omnicrazia”, alcuni interventi nel mensile “Il Potere è di tutti”, la raccolta completa delle “Lettere di religione”.
Nel 1978 è uscita la ristampa anastatica della rivista “IL POTERE E’ DI TUTTI”.
Nel 1988, a cura del Comune di Perugia, è stata ripubblicata l’autobiografia, “ATTRAVERSO DUE TERZI DI SECOLO”.
Nel 1992 e nel 1995 sono usciti il primo e il secondo volume della sua OPERA OMNIA, programmata in cinque volumi a cura della Regione dell’Umbria, della Provincia di Perugia, del Comune di Perugia.
Un apostolo laico
A Roma un incontro su Aldo Capitini, teorico della nonviolenza
Parlare di nonviolenza e commemorarne il suo massimo apostolo italiano – quell’Aldo Capitini scomodo testimone del suo tempo, teorico del liberalsocialismo, antifascista condannato al confino, uomo di pensiero e filosofo, “laico religioso”, come amava definirsi, ma soprattutto politico anomalo ché della politica faceva pratica quotidiana e non parola – non si può se non partendo dalla constatazione di una sconfitta. Il Novecento di Capitini, come quello di Gandhi, è infatti un secolo di violenze: e a nulla è servita l’esperienza di due guerre mondiali, della Corea, del Vietnam se è vero che il secondo millennio si chiude impugnando, ancora, le armi.Lo dice a chiare lettere Pietro Ingrao – nel corso di un incontro dedicato a Aldo Capitini cui hanno preso parte, tra gli altri, Rocco Altieri, Antonio Vigilante, Tom Benettollo e Rocco Pompeo – e la sua voce malcela un disagio: “Rispetto al messaggio di Capitini, noi abbiamo camminato su una strada diametralmente opposta che ci ha condotto alla rivalutazione della grande guerra di massa. Una guerra non più difensiva, come vorrebbe l’articolo 11 della nostra costituzione, né di necessità ma ‘bene in sé’.
Che senso avrebbe, altrimente, questa nuova aggettivazione – “umanitaria” – che liquida financo quell’ultima copertura che era stata rappresentata, nel Golfo, dall’Onu?”. Fallisce Gandhi quando la sua India costruisce la bomba atomica. E fallisce l’ideale di Capitini quando l’Italia decide di diventare portaerei americana. Dalla politica dell’oggi ai ricordi di ieri e viceversa. E’ un andirivieni continuo quello cui Ingrao si lascia andare e che fa dei suoi racconti tele popolate da personaggi ancora e sempre vivi. “Fu tra il ’38 e il ’39. Il temporale stava per abbattersi sul mondo.Con Paolo Solari andammo ad Assisi. C’era anche Capitini. Io e Solari, a tavola, ci demmo
i gomiti perché Capitini era vegetariano. Non capivamo come anche quello fosse un suo modo di praticare la nonviolenza”. Che è apertura, ricorda Rocco Pompeo, all’esistenza, alla libertà e allo sviluppo dell’essere ma soprattutto tensione verso il sovvertimento di una società inadeguata e costruzione di una vera democrazia. La quale – sottolinea Benettello – deve fondarsi su un movimento di cittadinanza attiva e farsi, così, autenticamente partecipativa. Qui la sfida – oggi come ieri e basterebbe rileggere qualche pagina del Politecnico – va giocato sul terreno del sapere e del sapere diffuso, unica garanzia di democrazia diretta. E’ da qui che la sinistra
deve ripartire ed è alla luce del pensiero di Aldo Capitini che i nuovi movimenti antisistemici (da Seattle a Davos a Porto Alegre) vanno letti.
Lì, e senza che i suoi attori ne siano sempre consapevoli, continua a vivere il “capitinismo”.
E non è un caso che proprio a Porto Alegre siano stati istituzionalizzati quei centri di orientamente sociale che Capitini, come ricorda Antonio Vigilante, aveva fortemente voluto. E’ a partire da questo movimento dal basso che Capitini dialogava con la sinistra così cercando di condurre la politica lontano dalle élite. E di edificare l'”omnicrazia”, il potere di tutti. Non il dominio ma il potere,
cioé la libertà di fare. Questa era la pratica non violenta (non pacifista) di Capitini: limitare il dominio e diffondere il potere – e il sapere – sino a farlo diventare di tutti.
ANTONIO VIGILANTE
RELIGIONE E NONVIOLENZA IN ALDO CAPITINI
[Il testo seguente e’ quello della relazione su “Religione e nonviolenza in Aldo Capitini” di Antonio Vigilante alla Tavola Rotonda su “Nonviolenza e Religione”, svoltasi a Perugia sabato 23 settembre, nell’ambito delle iniziative di approfondimento collegate alla marcia per la nonviolenza del 24 settembre. Ringraziamo Lanfranco Mencaroni per averci messo a disposizione il testo della relazione scritta da Vigilante, relazione che lo stesso Mencaroni ha letto alla tavola rotonda. Antonio Vigilante è autore della recente monografia La realtà liberata. Escatologia e nonviolenza in Capitini, Edizioni del Rosone, Foggia 1999]
Emancipatore di coscienze.
Il mio intervento intende approfondire il rapporto tra religione e nonviolenza in Aldo Capitini, che e’ stato il primo a proporre in Europa il problema filosofico della nonviolenza, e la cui opera resta ancora oggi fondamentale per approfondirne rigorosamente il significato, per sviluppare una intera teoria nonviolenta legata alla piu’ avanzata cultura contemporanea. Capitini e’ stato anche un critico della religione istituzionalizzata, ed un teorico della religione aperta. Cerchero’ di mostrare questi due aspetti dell’opera capitiniana, ed il loro legame, il loro reciproco fecondarsi.
Credo che sia pero’ necessario, anzitutto, precisare l’ispirazione generale del lavoro del filosofo perugino: cio’ che orienta la sua ricerca teorica e la sua prassi nel corso di trent’anni. Mi pare di poter individuare lo scopo fondamentale di tutta la sua opera nella emancipazione delle coscienze. Uso questa espressione pensando a quanto noto’ Carlo Rosselli in Socialismo liberale, a proposito della mancanza, in Italia, di coscienze emancipate:
“… in Italia – scriveva Rosselli – l’educazione dell’uomo, la formazione della cellula morale base – l’individuo -, e’ ancora da fare” (1).
E ancora:
“Gli italiani sono pigri moralmente, c’e’ in loro un fondo di scetticismo e di machiavellismo di basso rango che li induce a contaminare, irridendoli, tutti i valori, e a trasformare in commedia le piu’ cupe tragedie” (2).
Le cause di questo indifferentismo morale erano da Rosselli ricondotte all’influenza negativa della educazione cattolica, “pagana nel culto e dogmatica nella sostanza” (3), che ha impedito la nascita negli italiani d’un pensare autonomo, libero, responsabile; e il fascismo non era che il risultato ovvio della storia di un popolo abituato da secoli all’obbedienza, al lasciar fare.
Questa impietosa analisi della situazione italiana ci introduce alla problematica capitiniana. Come Rosselli, Capitini scorgeva sulla realta’ civile, religiosa e politica italiana il peso di una tradizione che non e’ piu’ possibile accettare passivamente, e bisognava invece negare, condannare, combattere, insieme ai poteri che di essa si avvantaggiavano: la Chiesa cattolica, il fascismo, i partiti, le istituzioni chiuse.
Se questo e’ lo scopo principale dell’opera capitiniana, allora essa, di cui non si puo’ non rivendicare il significato europeo e mondiale, rivela pure un legame particolarissimo con la realta’ italiana. Capitini parla all’uomo contemporaneo, ma rivolgendosi anzitutto all’italiano, additandogli i suoi mali storici, chiamandolo alla responsabilita’, alla riflessione, alla autonomia, alla serieta’ morale. Ad un certo punto si presenta in lui anche l’idea di un’Italia che, uscendo dall’esperienza decisiva del fascismo, diventa ancora una volta, attraverso la nonviolenza, guida di civilta’ per l’intera Europa.
La critica religiosa intendeva corrodere quel tanto di Controriforma che ancora dominava la vita religiosa italiana; la teoria nonviolenta, che nella sua essenza era rivoluzionaria (come ha ben chiarito Rocco Altieri) (4), era reazione al malinteso realismo politico della patria di Machiavelli, che nel fascismo giungeva alla massima espressione storica, e che era anch’esso una dimostrazione della mancanza di formazione spirituale degli italiani.
* La “cellula morale” e la compresenza
Molte sono le realta’ incontrate, scoperte da Aldo Capitini nel corso della sua ricerca appassionata e coerente: la realta’ liberata, la compresenza, la libera religione, la nonviolenza, l’omnicrazia. Ma cosa cercava il giovane filosofo, segretario alla normale di Pisa, quando inizio’, prima con l’amico Claudio Baglietto e poi da solo, il suo percorso intellettuale? Da dove
parte Capitini? Cosa lo preoccupa? C’era nei due giovani, come in tutti i migliori della loro generazione, una forte preoccupazione per la decadenza spirituale del tempo, per la crisi morale ed intellettuale, sulla quale gia’ si contava una ricca letteratura, da Spengler a Julien Benda. E’ alla soluzione di questa crisi che Capitini vuole contribuire: la sua si caratterizza fin dall’inizio come una riflessione sulla civilta’ occidentale attraversata dalla crisi. Cercare la soluzione alla crisi, e’ il problema di Capitini.
C’e’ in lui anche una visione disincantata della realta’, che e’ bene sottolineare. Osservando il mondo naturale, vi scopre la violenza e l’assurdo di una universale reciproca distruzione: il pesce grande che mangia il pesce piccolo. Volgendosi alla storia, trova gli errori della volonta’ di potenza e della guerra. La realta’ sociale gli appare segnata dall’ingiustizia, dallo sfruttamento, dalla sopraffazione. La vita individuale e’ esposta alla malattia, al limite, all’handicap, alla morte.
Ovunque, insomma, c’e’ violenza e male. Senza questo primo sguardo sconsolato, Capitini non avrebbe conquistato la visione positiva della libera religione e della nonviolenza.
La violenza ed il male non possono essere accettati. Capitini si rifiuta sin dal principio di considerare la realta’ come un tutto immutabile, un blocco impenetrabile alle nostre aspirazioni: e’ consapevole della importanza dell’immanenza, del piano storico, ma non e’ disposto a divinizzarlo, accettando come mali inevitabili i suoi limiti e le sue assurdita’. Ne’, del resto, questa consapevolezza lo spinge verso la Trascendenza. A cio’ si oppone non solo la sua formazione filosofica, ma anche, come meglio vedremo tra un po’, la considerazione che una Trascendenza autoritaria non fa che confermare gli aspetti violenti della natura e della storia.
Ne’ divinizzazione dell’immanenza, ne’ accettazione della Trascendenza, dunque. Capitini segue la via di un radicale ripensamento dell’immanenza.
Rifiutare il Dio della tradizione non vuol dire accettare il mondo cosi’ com’e’. E’ possibile ripensare la realta’ che ci circonda, chiedendosi se davvero in essa vi sia soltanto violenza.
Da dove partire per ripensare la realta’? Dall’uomo: non dall’uomo in generale -dall’umanita’- ne’ dall’uomo appartenente ad una classe sociale, ma dall’uomo singolo, dall’uomo comune. Per cogliere le caratteristiche del singolo, Capitini parte da se stesso, ascolta la propria coscienza. Non inizia sviluppando una teoria, ma esplorando una realta’ -la realta’ umana.
Parte dai dati elementari che gli sono forniti dalla propria esperienza interiore e dalla propria vita etica; dati non filtrati ed elaborati alla luce di un sicuro metodo analitico, ma sottoposti comunque ad un esame filosoficamente tutt’altro che ingenuo.
Si e’ visto un anticipo di esistenzialismo, in questo ritorno al singolo; ed e’ vero: ma con qualche non trascurabile differenza. Capitini e’ mosso fin dall’inizio -lo abbiamo appena visto- dalla preoccupazione pratica di cercare una via d’uscita alla crisi della civilta’. Nell’uomo intende riscoprire la leva per rovesciare un mondo in decadenza. Non si tratta di mera analisi esistenziale, ma di una verifica delle possibilita’ positive dell’uomo. Di qui la seconda importante differenza: pur considerando l’uomo comune, Capitini vi scopre possibilita’, potenzialita’, risorse eccezionali; non nella direzione del superomismo nietzscheano-dannunziano, ma in direzione etica.
Fin dalla prima opera -gli Elementi di un’esperienza religiosa del 1937 – Capitini cerca di comprendere e consolidare quella che, ricorrendo ancora a Rosselli, possiamo chiamare cellula morale: e sara’ questa cellula il fondamento della nuova realta’.
L’uomo puo’ tenersi nel limite: chiudersi nella propria singolarita’, come essere separato ed in lotta con le altre singolarita’. Ma c’e’ per lui un’altra possibilita’. Ognuno puo’ aprirsi all’altro, annullare il proprio limite, dire tu agli altri uomini, agli animali, alla natura. E’ quello che Capitini chiama “atto di unita’ amore” (5). E’ un atto semplice ma meraviglioso: con esso si sospendono le leggi della realta’. E’ un atto che attesta la possibilita’ di una diversa interpretazione della natura-storia: se posso amare l’altro, se posso vivere la sua vita come la mia stessa vita, allora la realta’ non e’ solo violenza. Questa possibilita’ insensata di amore dovra’ trovare un posto nel mondo. Individuata questa prima cellula morale, non si potra’ ripensare il tessuto dell’immanenza? Oltre la natura e la storia, Capitini pensa una diversa realta’, la cui essenza non e’ separazione e conflitto, ma l’unita’ di tutti nel valore; una unita’ che non e’ Totalita’, non annulla trascendendole le singole individualita’, ma le abbraccia e le salva, portandole verso la piena realizzazione del bene. Una realta’ nella quale i morti stanno accanto ai vivi, impegnati in un’unica, corale impresa di superamento della logica vitale-violenta della natura e della storia. Capitini parla di realta’ liberata, di realta’ di tutti, di Uno-Tutti e, infine, di compresenza. E’ importante tener presente che non si tratta di una categoria conoscitiva, ma di una categoria pratica. La compresenza, cioe’, non e’ una realta’ da pensare, da cercare tra gli altri enti. E’, invece, una realta’ da attuare, e’ una aggiunta alla nostra esperienza del mondo. La grandiosa realta’ di una comunione sovratemporale di tutti gli esseri viventi, unificati dalla creazione dei valori, non e’ oggetto di contemplazione, ma impegno, compito da attuare qui ed ora, con la certezza che la realta’ violenta del mondo non potra’ essere per sempre indifferente ed impermeabile ai valori, e che, come essa si lascia trasformare dalla tecnica umana, cosi’ dovra’ lasciarsi spiritualizzare, abbandonare il limite, la contrapposizione, il male per farsi realta’ libera e liberata.
* La religione aperta
Quel primo atto fondamentale, con il quale l’io si apre all’altro, e’ l’essenza della religione come la intende Capitini. Religione e’, per il filosofo perugino, l’atto con il quale io, sporgendomi oltre il limite della mia individualita’, deponendo ogni violenza ed ogni diffidenza, vivo una piena passione per il tu ed annuncio, in questo modo, una nuova realta’. “La religione -scrive in Vita religiosa – e’ farsi vicino infinitamente ai drammi delle persone, interiorizzare. Essa e’ spontanea aggiunta, e’ un darsi dal di dentro e percio’ libero incremento e pura offerta, non sostituzione violenta che io voglia fare all’infinita capacita’ di decidere delle coscienze” (6). Significativi gli aggettivi: spontaneo, libero, puro.
L’atto religioso ha in se’ qualcosa di inspiegabile. Come puo’ accadere che io, messo in un mondo conflittuale, sospenda la lotta e mi metta in ascolto, mi appassioni per l’altro? E’ un atto libero, gratuito -in un certo senso una sorta di lusso della realta’, e percio’ un momento particolarmente solenne non solo per la vita del singolo, ma per il destino del mondo. Per questo Capitini afferma che con questo atto di apertura si passa dalla teologia – descrizione di Dio come Ente trascendente – alla “teogonia in atto” (7). Nell’incontro dell’io con il tu Dio nasce come vicinanza, intimita’ assoluta. E’ la luce dell’infinito che si accende nella oscurita’ dei limiti e delle insufficienze degli esseri e delle cose. Infinita’ che non e’ altro che l’infinita’ dell’amore con il quale possiamo accogliere ogni creatura, superando la nostra stessa finitezza, il dolore, lo sconforto.
Bisogna ora notare la distanza di questo atto religioso capitiniano dalla religione istituzionalizzata. Dio, come Ente, non esiste: per evitare ogni equivoco e marcare la distanza della sua concezione religiosa da quella corrente, Capitini preferira’ parlare di compresenza piuttosto che di Dio; per la stessa ragione, per indicare la vita religiosa cosi’ intesa non parla di fede, ma riprende da Michelstaedter il termine persuasione.
Non esistono, in Capitini, esseri od oggetti sacri distinti dagli altri.
Ogni essere e’ sacro, ogni essere merita quell’amore, quel rispetto assoluto che il credente ha per Dio, per i santi, per le cose sacre. Non ha senso, nella prospettiva della religione aperta, la distinzione tra sacerdoti e semplici credenti, perche’ il Dio-compresenza si apre nella vita di ognuno, vi si giunge attraverso una esperienza esistenziale, e non attraverso la rivelazione affidata ad una casta sacerdotale. Ogni uomo, in Capitini, e’ sacerdote della compresenza. Di piu’: ogni uomo, amando gli esseri d’un amore infinito, e’ profeta di una diversa realta’.
La religione profetica di Capitini e’ il rovesciamento della religione sacerdotale. Quest’ultima e’ fatta di elementi dogmatici, alimenta la superstizione, si circonda di riti e cerimoniali, giustifica l’esistenza di chiese autoritarie, il cui potere agisce nella societa’ in senso conservatore, ha paura del pensiero libero e dell’autonomia delle coscienze. La religione aperta e profetica e’ invece essenzialmente annuncio di una nuova realta’ attraverso la prassi. A rappresentarla, specifica Capitini, non sono le Chiese, ma individui isolati che “la testimoniano col martirio personale, anche perche’ sono, di solito, rivoluzionari e in contrasto coi potenti, e annunciano il tema escatologico della fine e di una nuova realta’ e societa’” (8). La vita di Capitini, la sua attivita’ politica, la sua costante, coraggiosa opposizione alla Chiesa cattolica sono il risultato di questa concezione rivoluzionaria della religione: individuo isolato, non si stanca di ripetere che l’autoritarismo cattolico, il dogmatismo, la connivenza col potere sono errori che offendono una matura coscienza religiosa. La religione aperta e’ avvicinarsi infinitamente alle creature, e cosi’ facendo distaccarsi dal mondo cosi’ com’e’, iniziare un movimento di liberazione e di riscatto.
Critico del cattolicesimo (e non solo di quello pre-conciliare: le stesse aperture del Concilio gli sembrano parziali ed insufficienti), Capitini e’ anche non cristiano. E’ questa una precisazione assolutamente fondamentale.
E’ forte la tentazione di mostrare il carattere tutto sommato ancora cristiano della religione capitiniana: siamo abituati a legare in qualche modo al cristianesimo tutte le esperienze spiritualmente significative della nostra cultura. Contro questi tentativi c’e’ la chiarissima affermazione di Capitini di essere “post-cristiano”. Post-cristiano e’ qualcosa di piu’ di non-cristiano: nega molti punti essenziali del cristianesimo, ma non tutto.
Nega con decisione che Gesu’ sia il Cristo, il Figlio di Dio: convinzione senza la quale non si puo’ essere cristiani. Nega tutti gli aspetti leggendari e non dimostrabili dei Vangeli. Cio’ che non nega e’ il meglio dei Vangeli: le beatitudini, il modello di una spiritualita’, di un agire che si approssima agli ultimi. Gesu’ ha insegnato dove puo’ giungere una coscienza religiosa, ma e’ stato altro che un uomo: “fu anche lui, come tutti, un essere con certi limiti; ma d’altra parte fu in lui, come in ogni altro essere, la qualita’ della coscienza che va oltre i limiti, che e’ in lui come in un mendicante” (9). Ognuno puo’ partecipare della grandezza di Gesu’: l’imitazione di Cristo, cosi’ intesa, non e’ altro che la realizzazione piena della propria realta’ umana. Si potrebbe ugualmente parlare di una imitazione del Buddha, di Francesco d’Assisi, di Gandhi, di Tolstoj. Molti sono gli uomini che nel tempo hanno raggiunto la vetta d’una compiuta religiosita’, vale a dire di una piena umanita’.
Enrico Peyretti si e’ chiesto se in Capitini non vi sia il rischio di una religiosita’ soltanto soggettiva, che, eliminando Dio come Altro, “esalta al massimo grado di valore alcuni nostri valori umani, troppo umani.”
L’accentuazione degli aspetti soggettivi dell’esperienza religiosa e la conseguente riduzione di quelli oggettivi, condizionata secondo Peyretti dalla critica del cattolicesimo del suo tempo, non consente comunque di parlare di una religione solo soggettiva, perche’ l’alterita’ si presenta in lui nella forma del tu, dell’altro uomo. “Se Dio c’e’, vivente e altro da noi, l’apertura al tu e’ apertura a lui, anche quando non lo conosciamo e non lo possiamo affermare” (10). E certo non si puo’ accusare di soggettivismo un pensatore che fin dall’inizio ha messa al centro il tu, ed ha individuato nell’apertura all’alterita’ il fatto fondamentale dell’esistenza.
Capitini parla di libera religione e religione aperta, ma sottolinea anche piu’ volte che la sua concezione puo’ essere vissuta in una prospettiva ateistica, e che si puo’ fare a meno di parlare di Dio a proposito della compresenza. Se la religione e’ trascendenza, e l’ateismo e’ immanenza, il pensiero capitiniano non e’ ne’ religioso ne’ ateistico: cerca piuttosto una terza via. L’immanenza e’ il punto di partenza di un movimento di trascendimento, che porta la natura e la storia verso una realta’ liberata.
Una realta’ che non e’ al di la’ di questo mondo: e’ questo stesso mondo, riscattato dai suoi limiti. Questa realta’ liberata dal limite e’ per Capitini realta’ di tutti: la salvezza, cioe’, non e’ solo di alcuni uomini, degli uomini giusti o di coloro che hanno fede. La salvezza capitiniana non prevede dannazioni ed Inferni. L’assassino ed il santo sono l’uno accanto all’altro nella compresenza. E’ una concezione che apparira’ sconcertante, e certamente inaccettabile per il cristiano. Ma si tratta anche dell’approfondimento della logica dell’amore, che colma gli errori, e li purifica accogliendoli nel suo movimento verso la perfezione. Tutti e’ una parola che risuona in Capitini come un impegno per l’uomo persuaso: ed e’ una parola che comprende giusti ed empi, dittatori e martiri, uomini ed animali. Riconoscere i limiti, gli errori, le cadute dei giusti (per Capitini presenti anche in Gesu’) ed al tempo stesso il travaglio, la drammatica scissione interiore sempre presente nei malvagi, aiuta a comprendere l’impossibilita’ di operare distinzioni. Ogni essere e’ in lotta con i proprio limiti: ogni essere pertanto partecipa della compresenza, che e’ in lotta con i limiti della natura e della storia.
* Religione e politica
La libera religione di Capitini e’ naturalmente politica. Essa non e’ solo aperta perche’ non dogmatica: e’ anche aperta a tutte le dimensioni dell’attivita’ umana. Per Capitini e’ irrilevante il problema della sopravvivenza individuale. Se religione e’ andare oltre la propria finitezza, aprirsi agli altri, allora il vero problema non e’ quello della mia salvezza, ma della salvezza di tutti; non mi ribellero’ alla mia mortalita’, ma alla mortalita’ dell’altro, di tutte le creature che amo. Se poi non esiste la Trascendenza, questa salvezza di tutti non puo’ avvenire che in questo mondo: dev’essere la perfezione della storia e della natura.
Una perfezione che non scende dall’alto, ma e’ messa in moto, anticipata dal nostro agire, dalle nostre scelte.
Il libero religioso non e’ legato al Tu trascendente ed impegnato a conquistarsi un Paradiso privato: e’ invece legato a tutti, fedele alla terra, attivo per la liberazione di tutti. “La patria del religioso e’ la socialita’” (11), scrive ne La realta’ di tutti. La religione e’ per Capitini libera aggiunta. Aggiunta vuol dire che la religione si accompagna ad altro: si aggiunge alla politica, all’economia, all’educazione, alla morale, alla conoscenza, all’arte. Aggiungendosi ad esse, le trasforma, le purifica, le ricongiunge alla verita’ dell’essere umano. Ma l’aggiunta e’ anche libera. Il religioso da’, ma non impone. E’ un contributo spontaneo, che non chiede sottomissioni, non perseguita chi la pensa diversamente, non crea istituzioni al di fuori delle quali ci si perde. Libera aggiunta significa testimonianza: io credo che questo sia il bene, e percio’ lo seguo; se voi credete altrimenti, seguite pure la vostra via: io non vi giudico, non vi condanno, non vi impongo nulla. In questo atteggiamento la preoccupazione per gli altri si accompagna all’assoluto rispetto per la loro coscienza, perche’ la vita religiosa e’ spontaneo aprirsi, ed il meglio che si puo’ fare per favorirla e’ offrire l’esempio della propria persuasione.
Come ha osservato Mario Martini, per Capitini le religioni valgono in quanto “hanno dato vita ed hanno perfezionato il senso della liberazione dell’uomo” (12).
Il meglio delle religioni e’ la consapevolezza dei limiti, degli errori, del male, e l’aspirazione al meglio, alla pienezza. Capitini e’ in Italia colui che ha saputo cogliere e riproporre la dimensione sovversiva della religione: quella dimensione studiata da Ernst Bloch in Thomas Munzer come teologo della rivoluzione. Religione e’ al tempo stesso fare guerra e fare pace con il mondo. Essa, sostiene in Religione aperta, “e’ separazione, e’ lotta, e’ guerra”, in quanto contrasta i limiti del mondo; “in quanto essa parla di Dio, o di una realta’ liberata, indica un’unita’ piu’ profonda, la possibilita’ di una vera pace” (13). L’uomo religioso dovra’ essere dunque un rivoluzionario, uno che e’ teso con tutto se stesso alla trasformazione, qui ed ora, del mondo.
* La nonviolenza
Ecco dunque il significato, in Capitini, della nonviolenza: essa e’ la rivoluzione, purificata dalla aggiunta religiosa. E’ il tipo di rivoluzione adatta al persuaso religioso, a colui, cioe’, che si solleva contro i limiti, ma che ha anche coscienza del valore infinito delle persone e della unita’ di tutti. La nonviolenza e’ rivoluzione per tutti, che, come ogni rivoluzione, deve combattere contro alcuni, ma lo fa avendo costantemente presente il loro stesso bene. La premura per l’avversario e’ l’essenza della prassi rivoluzionaria nonviolenta, che la distingue da ogni altra concezione rivoluzionaria. Un’altra importante distinzione riguarda la concezione della
prassi che e’ al fondo di questo tipo di rivoluzione. La rivoluzione religiosa e nonviolenta non discende da una conoscenza sicura delle leggi che governano la storia, non ha alle spalle una grandiosa dialettica. Questo potrebbe sembrare un limite, ed e’ invece per Capitini un pregio della prassi nonviolenta. Non essendo legata a schemi dialettici, tanto grandiosi quanto dogmatici, la prassi nonviolenta e’ prassi pura: non ha bisogno, cioe’, di conoscere il mondo per modificarlo, e’ fin dall’inizio impegnata nella trasformazione del mondo; essa, scrive, “essendo prassi fin dall’inizio, puo’ portarla fino al massimo, investendo la realta’ con trasformazioni delle stesse categorie che alla conoscenza parrebbero immodificabili” (14). Una prassi rivoluzionaria legata ad una concezione della realta’ storico-naturale (quale, ad esempio, il materialismo dialettico) deve misurare le proprie ambizioni, adeguarsi alla realta’ esteriore: e rischia presto di perdere slancio, dar vita a semplici riforme, realizzare innovazioni solo apparenti.
La prassi religiosa, partendo dal piano pre-politico della coscienza e della relazione con l’altro, puo’ raggiungere la massima estensione e richiedere le trasformazioni piu’ radicali. Il “dire tu”, che e’ l’inizio di tutto il pensiero di Capitini, e’ per lui anche la prima tecnica della nonviolenza.
Nel momento in cui scopro l’altro come realta’ dotata di un valore infinito, ho gia’ superato la logica della violenza e del conflitto: ho gia’ conquistato, cioe’, l’essenziale della nonviolenza. Capitini sa bene, naturalmente, che questa visione fondamentale non e’ raggiunta una volta per tutte, ma va riconquistata di volta in volta, e difesa contro le cadute sempre possibili. Il nonviolento dovra’ cominciare il suo lavoro proprio da se stesso: la nonviolenza, scrive il filosofo perugino, ha anzitutto “un carattere di edificazione interiore” (15).
La realta’ storica non e’ piu’ vista come svolgimento meccanico dominato da forze sopraindividuali. La nonviolenza, a differenza di altre teorie politiche, ha bisogno di uomini consapevoli, autonomi, sani; essa dovra’ promuovere quindi anzitutto la formazione spirituale dell’uomo -e qui si torna alla osservazione di Rosselli sulla necessita’ di formare l’individuo.
Il contributo piu’ profondo di Capitini alla riflessione sulle tecniche della nonviolenza va ricercato, a mio avviso, proprio in questa dimensione della formazione spirituale. Penso, ad esempio, alle pagine di Religione aperta nelle quali parla di quattro “modi di vita che trasformano intimamente la realta’-societa’-umanita’ com’e’ ora” (16): il silenzio, che serve ad ascoltare con maggiore attenzione le altre creature; la meditazione, che sospende l’attivismo; l’ascolto della musica, che con la sua pura bellezza anticipa la realta’ liberata; la gentilezza verso tutti, che porta in ogni incontro il senso dell’unita’ di tutti.
Dalla ispirazione liberamente religiosa discendono altre due positive caratteristiche delle nonviolenza di Capitini. La prima e’ il rilievo dato al vegetarismo. “L’ispirazione della nonviolenza e’ l’amore religioso, e questo non puo’ arrestarsi all’umanità”(17), scrive negli Elementi di un’esperienza religiosa. La nonviolenza e’ in Capitini rispetto ed amore che dall’umanita’ si estende agli animali, alle piante, alle cose stesse: essa intende diminuire la quantita’ totale di violenza presente nel mondo, e percio’ non si arresta alla violenza appariscente dell’uomo contro l’uomo, ma si sofferma anche sulla violenza naturale, legata alla necessita’ di nutrirsi. C’e’ inoltre, anche se non sufficientemente sviluppato, un accenno a quella particolare violenza che consiste nel non rispettare le cose, nell’usarle male, nello sciuparle, nello “studiarle malamente o soltanto per l’utile” (18). E’ il problema ecologico, oggi cosi’ importante. Questa idea di una riduzione della violenza totale -nei rapporti umani, nei confronti degli animali, nell’uso delle cose e delle risorse naturali- ha sullo sfondo il sogno della religione profetica: il sogno di una realta’ nella quale il lupo possa abitare con l’agnello.
La seconda caratteristica e’ il legame tra la nonviolenza e l’omnicrazia. La societa’ nonviolenta dev’essere caratterizzata per Capitini da un potere diffuso, da una partecipazione politica che va ben oltre le forme della democrazia rappresentativa. I luoghi del potere diffuso sono libere assemblee popolari (i Centri di Orientamento Sociale) dove si discutono i diversi problemi della vita comune, si propone, si controlla il potere. Mi pare che si possa scorgere in questo richiamo di tutti all’impegno una traduzione politica del rifiuto capitiniano dell’idea del sacerdozio. La religione e la politica sono le due dimensioni fondamentali dell’esistenza umana: di esse deve fare esperienza diretta, senza intermediari. Non e’ piu’ possibile abbandonarsi fiduciosamente ad istituzioni che hanno dimostrato pienamente i loro limiti. L’idea di una societa’ nella quale il potere si apre e si diffonde e’ inoltre una conseguenza della concezione della compresenza. L’assemblea e’ per Capitini anche il luogo nel quale ognuno scopre la vicinanza dell’altro, e si avverte -certo in modo ancora parziale – l’unita’ di tutti nella prospettiva della compresenza. Ancora una volta la formazione politica coincide con il sorgere di una nuova vita religiosa, lontana dalla sterilita’ dei riti e delle cerimonie tradizionali.
* Importanza dell’aggiunta religiosa
L’approccio liberamente religioso alla nonviolenza si espone ad una duplice critica. I credenti nella Trascendenza (siano essi cattolici o critici del cattolicesimo) accuseranno Capitini di aver fondato troppo debolmente la prassi nonviolenta sull’idea filosofica di compresenza; sosterranno che una prassi cosi’ rischiosa, che si spinge fino al sacrificio di se’, ha bisogno di un fondamento religioso forte, di un Dio che guida e sostiene piu’ concretamente della evanescente compresenza capitiniana, di una legge divina che rende possibile la critica e l’opposizione ai poteri umani – e riproporranno piuttosto la figura d’un Tolstoj. I laici invece accuseranno il pensatore perugino di aver messo troppa religione nella sua teoria della nonviolenza; di non aver dunque elaborato una teoria politica pura, universalmente condivisibile, autosufficiente. Pietro Pinna, ad esempio, si e’ preoccupato di assicurare che la teoria nonviolenta di Capitini e’ autosufficiente, puo’ stare senza la sua concezione religiosa, da Pinna definita “sconcertante” e “paradossale” (19). Matteo Soccio ha osservato che la nonviolenza di Capitini e’ “profondamente pervasa di spiritualita’ e fortemente caratterizzata da una metafisica (la realta’ di tutti, la compresenza) bisognosa continuamente di decifrazione perche’ il linguaggio e’ difficile per chi ‘non crede’” (20). Piu’ recentemente, Enzo Marzo scrive: “Un’eccessiva esaltazione dell”uomo religioso’ rispetto al ‘cittadino’, il far passare concetti che sono e devono essere politici
attraverso la cruna della religiosita’, per quanto venata di laicita’ e distinta dalla fede, hanno opacizzato la forza dirompente di valori sempre piu’ necessari per una pacifica convivenza” (21).
Si tratta, in sostanza, del riproporsi di quei recinti ideologici che Capitini ha combattuto per tutta la vita. Capitini e’ stato un pensatore di frontiera: la sua grande capacita’ e’ stata quella di cogliere con uno sguardo generoso le grandi correnti ideologiche del nostro tempo, e di comprendere che la salvezza e’ nell’incontro di pensiero laico ed anelito religioso, di passione per l’assoluto e di azione nel contingente.
Che la filosofia di Capitini debba essere “continuamente decifrata” e’ osservazione poco condivisibile. Sicuramente la piu’ piena comprensione del significato della compresenza capitiniana, del suo valore, del suo posto nel pensiero contemporaneo e’ una impresa non semplice anche per gli studiosi.
Ma Capitini sa anche semplificarsi, ridurre le sue idee ai termini essenziali, sa trovare il giusto tono colloquiale per avvicinare anche il lettore piu’ distratto: in nessun caso chiede di “credere” in un corpo di verita’ gia’ costituito; mostra piuttosto costantemente il percorso attraverso il quale e’ giunto alle sue convinzioni, ed aiuta il lettore a compiere un medesimo percorso, lo guida alla riscoperta della propria interiorita’ e della propria esperienza intersoggettiva. La bellezza delle pagine capitiniane e’ anche qui, in questo tono fraterno, cosi’ raro nella filosofia contemporanea.
Quella di Capitini non e’ una metafisica astratta, ma una metafisica pratica: la sua “decifrazione” e’ possibile a chiunque, attraverso la prassi della nonviolenza. Non si tratta, quindi, di far dipendere la nonviolenza da dogmi, da idee avulse dall’esperienza, da tradizioni non criticate, da una fede gia’ costituita. Si tratta invece di comprendere fino in fondo il significato del “non uccidere”. Da dove viene questa scelta? E dove va?
Quale realta’ condanno scegliendo di non uccidere? E verso quale realta’ mi muovo? Questi interrogativi vogliono approfondire la logica della nonviolenza, e la risposta che Capitini da’ ad essi e’ un tentativo di decifrazione della stessa nonviolenza.
Senza questi interrogativi la nonviolenza rischia di ridursi a poca, misera cosa. Condivido la preoccupazione di Rocco Altieri: la preoccupazione, cioe’, che senza riferimento religioso la stessa politica nonviolenta possa diventare “senz’anima e senza scrupoli” (22). Si possono, si devono discutere le risposte che Capitini ha dato a quegli interrogativi, ma sarebbe un grave errore metterli da parte come superflui e fuorvianti.
Se la nonviolenza e’ la forza della verita’ (satyagraha), il nonviolento dev’essere un cercatore di verita’. Aldo Capitini ha cercato la verita’ nella sua interiorita’ e nella relazione con gli altri. Ha scoperto alcune cose molto interessanti, e poiche’ gli sembrava che queste cose potessero dare senso ad una intera vita, ha parlato di religione. Avrebbe potuto parlare di spiritualita’, non sarebbe cambiato nulla. Per trent’anni ha seguito il suo discorso di verita’: ed e’ un discorso limpido, lineare, che ognuno puo’ verificare da se’, ripercorrendo il suo percorso, ponendosi le stesse domande, cercando se necessario soluzioni diverse.
Note
1 – C. Rosselli, Socialismo liberale, a cura di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1997, p.111.
2 – Ivi, p.112.
3 – Ibidem.
4 – R. Altieri, La rivoluzione nonviolenta. Per una biografia intellettuale di Aldo Capitini, Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1998.
5 – A. Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa, in Scritti filosofici e religiosi, a cura di Mario Martini, Protagon, Perugia 1994, p.30.
6 – A. Capitini, Vita religiosa, in Scritti filosofici e religiosi, cit., p.96.
7 – Ivi, p.21.
8 – A. Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, in Scritti filosofici e religiosi, cit., p.426.
9 – A. Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa, cit., p.23.
10 – E. Peyretti, Aldo Capitini: l’idea di una religione aperta, relazione letta al Convegno di Studi “Aldo Capitini filosofo della nonviolenza nel centenario della nascita”, Torino 15-16 dicembre 1999. Ringrazio Peyretti per avermi fornito il testo inedito della sua relazione.
11 – A. Capitini, La realta’ di tutti, in Scritti filosofici e religiosi, cit., p.204.
12 – M. Martini, Introduzione a A. Capitini, Scritti filosofici e religiosi, cit., p. XIX.
13 – A. Capitini, Religione aperta, in Scritti filosofici e religiosi, cit., p.473.
14 – A. Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, cit., p.385.
15 – A. Capitini, Il problema religioso attuale, in Scritti filosofici e religiosi, cit., p.36.
16 – A. Capitini, Religione aperta, cit., p.541.
17 – A. Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa, cit., p.35. 18 Ivi, p.36.
19 – P. Pinna, La proposta della nonviolenza, in Aa. Vv., Il messaggio di Aldo Capitini, a cura di G. Cacioppo, Lacaita, Manduria 1977, p.211.
20 – M. Soccio, Introduzione a J. M. Muller, Significato della nonviolenza, Edizioni del Movimento Nonviolento, Perugia 1980, p. 5.
21 – E. Marzo, Capitini, il futuro della non violenza, in Corriere della Sera, 14 dicembre 1999.
22 – R. Altieri, La rivoluzione nonviolenta. Per una biografia intellettuale di Aldo Capitini, cit., p.135.
La grandezza umile di Capitini, uno che non si chiamava mai fuori
di Marco Revelli ( redazione@vita.it )
Capitini ci indica un percorso per potenziare le proprie aperture verso gli altri in una rete di realzioni che facciano tutti artefici della realizzazione di ciò che ha valore.
Il pensiero di Aldo Capitini, anche quello più specificamente “politico”, è un pensiero complesso, articolato, potremmo dire a molti strati. Un pensiero che si sviluppa per cerchi concentrici, con al centro, senza dubbio, come motore e fulcro, la non violenza: l’opzione non solo tattica, pratico-operativa, ma fondante, eticamente e filosoficamente decisiva, per il metodo non violento. E poi, con spirali via via più ampie, diversi livelli di riflessione e diversi tipi di proposte, tutte riferibili a un’idea guida, a una grande intuizione che possiamo sintetizzare nella percezione forte, sempre presente, dell’unità sostanziale del genere umano.
Dell’Umanità come soggetto unitario di storia e di diritti, come “totalità” compresente, al di là di ogni possibile distinzione di etnia, cultura, opinione politica, collocazione sociale.
A quell’idea di umanità, e al sentimento che non può non accompagnarla, il senso della socialità, dell’apertura all’altro, a ogni altro, per quanto lontano da noi possa essere, sono improntate le sue più significative proposte, sul piano organizzativo, amministrativo, istituzionale, la stessa idea, originalissima, di democrazia che lo anima, fino agli strati densi della sua visione dove la sfera politica trascolora in quella religiosa e la riflessione storica in quella etico filosofica.
Un confronto tra diversi
Nel cerchio più esterno, a un livello, se così si può dire, più “superficiale” troviamo la proposta “organizzativa” di Capitini: l’idea di quei Centri di orientamento sociale che, nella sua visione, avrebbero dovuto non sostituire, ma precedere la struttura dei partiti politici, e funzionare come primo, fondamentale momento di educazione del popolo alla teoria e alla pratica della vita democratica. Luoghi di libera discussione, d’incontro tra tutti i cittadini, nessuno escluso, aggregati non per omogeneità di posizione politica o idelologica, o di adesione a programmi, come appunto nel “partito”, ma in quanto persone senza altra determinazione: non associazioni di simili, di identità omogenee, ma, al contrario, spazi pubblici d’intersezione e confronto tra diversi.
A un secondo livello, in un secondo cerchio, più profondo e in qualche modo più “denso”, si colloca il concetto di “Onnicrazia”, il potere di tutti o meglio il potere “esercitato da tutti”, nel quale si sostanzia un grado più alto di “apertura” delle società e degli individui; una più ampia accettazione dell’altro come coattore nella pratica dei valori: quell’idea tipicamente capitiniana della “presenza di tutti” nel processo storico che si va facendo e insieme nell’orizzonte di chiunque intenda operare per il valore.
E se la dimensione del Centro opera per saldare i cittadini alla vita amministrativa, quella dell’Onnicrazia opera per tradurre l’agire pubblico in valori, in pratica di valori che trascendano gli individui atomi e lo introducano in una sfera di esperienza collettiva nella quale nessuno venga sacrificato, o ignorato, ma tutti partecipino dell’essere, appunto, “presenti”.
Infine vi è un terzo livello, un terzo cerchio, il più interno e il più profondo del sistema di Capitini, in cui l’idea di totalità del genere umano (nel senso della appartenenza di tutti gli uomini all’orizzonte di ognuno) raggiunge il suo più compiuto svolgimento acquistando un senso pienamente rivoluzionario, di rottura radicale con l’ordine di cose e di pensiero esistente, ed è quello in cui si introduce il concetto di “realtà di tutti”. In cui cioè si sviluppa l’idea di un radicale mutamento di atteggiamento e di mentalità (una metamorfosi radicale della soggettività) fondato sulla totale apertura dell’Io agli altri.
A tutti gli altri, non solo coetanei, ma alle stesse generazioni presenti e future, ai defunti e ai posteri, agli abitanti di ogni “aldilà” e persino alle creature che si collocano al di fuori del genere umano.
La figura del Persuaso
E’ il livello che ci introduce alla figura del “Persuaso”: una figura cruciale nel pensiero di Aldo Capitini perché incarna non solo l’idea della più radicale delle rivoluzioni realizzata attraverso un mutamento estremo di sé, del proprio modo di rapportarsi a ciò che ci circonda, all’insieme delle relazioni che ci collegano alla realtà come totalità vivente, ma la stessa possibile risposta (forse l’unica non disperata) al problema che ha travagliato e disseminato di orrori il secolo ventesimo: il problema della finitezza, della fragilità e della morte degli individui divenuti, dentro il processo di modernizzazione accelerato, ognuno un “mondo”, l’unico mondo immaginabile.
Da quel trauma era nato l’ipersoggettivismo, il narcisismo, l’aggressività, la violenza e la distruttività del secolo in cui l’uomo in senso proprio finiva per “vivere per la morte” (propria e altri). Capitini ci indica, qui, un fragile, ancora incerto percorso di uscita alternativo attraverso la possibilità per l’uomo di farsi mondo, di attivare e potenziare le proprie aperture verso gli altri fino a incorporarsi a essi in una rete di relazioni che comprendano tutti, e facciano tutti e ognuno solidalmente responsabili e artefici della realizzazione di ciò che per l’uomo “ha valore”. Il “Persuaso” è appunto colui che «vive in mezzo alla tragedia del mondo come Cristo e sente continuamente l’ombra che taglia la vita, la felicità, il piacere, ma popola l’ombra di una presenza superiore, quella dei lontani, degli afflitti, dei morti».
E’ l’ “uomo moltitudine”, «la coralità che entra nella voce dell’individu»”. Non colui che di fronte al conflitto e alla morte si chiama fuori, si separa dagli altri, distingue il proprio mondo dal loro, ma colui che si mette in mezzo, e partecipa degli orrori e degli errori di tutti, sentendoli propri. Colui che con tutti, soprattutto, cammina.