Amministrazione giudiziaria

Intervento del magistrato dott. Roberto Mazzoncini in occasione dell’incontro-dibattito organizzato a Brescia il 6 giugno 2011 presso il Museo delle Scienze naturali da Libertà e Giustizia e da Movimento Nonviolento, con il Patrocinio del Comune di Brescia, sul tema

Attentato alla Costituzione? Quali Garanzie per i cittadini? La proposta di riforma costituzionale della Giustizia

Ringrazio le associazioni che hanno promosso questo incontro per avermi invitato a parlare di temi tanto dibattuti, quanto troppo spesso tuttora oscuri, se non nei contenuti, sicuramente quanto alle possibili soluzioni.
Il mio è il punto di vista di un magistrato, che, se pure da qualche mese in pensione, conserva il profilo culturale di una delle parti in causa. Ma è anche il punto di vista di chi, in 46 anni di quello, che un tempo si definiva “un onorato servizio”, ha avuto modo di assistere ai cambiamenti, questi sì epocali, della nostra società ed alla perdita di contatto, lenta quanto continua, dell’istituzione giudiziaria dalla nuova emergente domanda di giustizia.
L’Amministrazione Giudiziaria, nel suo complesso, fatto di giudici e pubblici ministeri togati e onorari, di cancellieri e personale, ma anche di avvocati, consulenti e periti, non ha tenuto la ruota dello sviluppo sociale ed economico del Paese ed oggi è ridotta ad una macchina pesante, costosa ed inefficiente, certo incapace di dare tutela ed attuazione ai diritti dei cittadini con la velocità e la tempistica che il nostro tempo richiede.
Anche negli Uffici, come il Tribunale di Brescia, dove le condizioni umane e strutturali hanno consentito il recupero degli arretrati e di una almeno decente tempestività della risposta di primo grado, il prodotto finale, cioè la definitività delle sentenze, viene rimesso al lunghissimo tempo (4-5 anni) successivamente necessario al giudizio della nostra Corte d’Appello, intasata da un enorme arretrato, ingestibile con le scarsissime risorse oggi disponibili.
Capire come tutto ciò sia potuto avvenire, ha costituito e costituirà materia per molti altri incontri.
Anche se è evidente che “lo stato dell’arte” sta alla base di qualsiasi progetto di cambiamento, oggi siamo qui per parlare e dibattere della proposta di riforma costituzionale della Giustizia, presentata il 10 marzo 2011 dal Governo in carica.

Nell’intento di semplificare il discorso e di tenerlo il più possibile ancorato
ai fatti, cioè ai punti della Carta Costituzionale, investiti dalla proposta riformatrice, ritengo utile confrontare insieme il nuovo testo ed il vecchio, riservandomi un commento, che cerchi di spiegare quali siano i principi e gli interessi tutelati dalla Carta vigente e quelli che si vorrebbero tutelare con la riforma. Resterà a ciascuno di voi decidere quali conviene salvaguardare e quali si possono cambiare.
Prometto che, nei limiti consentitimi dal mio punto di vista, che resta pur sempre quello di un magistrato. cercherò di farlo nel modo più oggettivo possibile.
a)

Le nuove norme (artt. 1, 6, 7) investono, innanzitutto, il CSM, prevedendone la scissione e modificandone profondamente la composizione: ci sarà un Consiglio Superiore della Magistratura Giudicante ed uno della Magistratura Requirente; entrambi resteranno presieduti dal Presidente della Repubblica, ma ciascuno avrà un solo membro di diritto: il Presidente della Corte di Cassazione per la Giudicante, il Procuratore generale della Cassazione per la Requirente; la suddivisione dei seggi ne riserverà ai magistrati soltanto il 50% contro gli attuali 2/3, restando la restante quota assegnata a docenti universitari e ad avvocati con 15 anni di servizio, in carica per 4 anni, non rieleggibili e con il divieto di essere iscritti agli albi professionali e di far contemporaneamente parte del Parlamento o di un Consiglio regionale, provinciale o comunale; la nomina dei componenti, siano togati o laici, avverrà per elezione: da parte del Parlamento in seduta comune, quanto ai membri laici; da parte di tutti i giudici ordinari, ovvero di tutti i P.M., quanto ai componenti togati, senza che il loro voto possa riguardare candidati diversi da quelli, giudici o pubblici ministeri, rispettivamente, sorteggiati tra tutti gli eleggibili delle due categorie.

Ora, non c’è dubbio che la scissione del CSM costituisca una risposta logica alla richiesta della separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, nata con il processo accusatorio e recepita dal co. 2 dell’art. 111 della Costituzione, introdotto dalla legge costituzionale n.2 del 1999, che prescrive che ogni processo, per essere giusto, debba avvenire in contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità e davanti ad un giudice terzo e imparziale.
Ed è pur vero che entrambi i nuovi CSM, pur dimezzati, continueranno ad essere presieduti dal Capo dello Stato, quindi dall’organo “super partes” in grado di assicurare e tutelare l’indipendenza della magistratura.
E, tuttavia, l’intero contesto di queste prime norme rende fin da subito comprensibili le preoccupazioni dei magistrati, come espresse dalla loro Associazione e condivise da quanti ritengono che l’indipendenza e l’autonomia dei giudici e dei P.M. costituisca un limite insuperabile del principio democratico.
E, infatti, l’esigenza della separazione delle carriere è stata in gran parte già attuata con le riforme Castelli e Mastella, rispettivamente del 2005 e del 2007, che hanno reso più difficile il passaggio dall’una all’altra funzione, impedendo che un magistrato possa assumere le funzioni di giudice penale nel distretto dove aveva esercitato quelle di pubblico ministero (e viceversa). Mentre le residue conseguenze della convivenza ordinamentale tra queste diverse funzioni, pur destinate ad essere prima o poi superate, non costituiscono certamente delle priorità, di fronte al disastro della macchina giudiziaria.
Ciò che risulta evidente dalla sola lettura di queste nuove norme è il fatto che la separazione delle carriere è soltanto uno, certo non il maggiore, tra gli interessi che sostengono la proposta di riforma.
L’occasione sembra, infatti, propizia per far passare una riforma, che nega ai magistrati, giudici o pubblici ministeri che siano, quella presenza dei 2/3 nei rispettivi organi di autogoverno, voluta dai costituenti a salvaguardia della loro indipendenza ed autonomia; per di più, impedendo l’attuale voto per liste ed obbligando i magistrati a votare soltanto per coloro, che siano stati sorteggiati tra tutti gli eleggibili, si impedisce la scelta di quanti tra loro siano ritenuti i più rappresentativi e più adatti a comporre un organo, che non dovrà scrivere sentenze, ma presiedere all’organizzazione del lavoro giudiziario.
L’idea è, evidentemente, quella di impedire la formazione di correnti, connotate da contrapposte idee, anche politiche, togliendo loro ogni possibilità di gestione dell’elettorato e delle sue scelte.
Ora, non si può negare che le correnti dell’Associazione Nazionale Magistrati, nate e giustificate dalla comunione di idee degli associati e dall’esigenza di tradurle in termini di organizzazione giudiziaria, abbiano talvolta finito per travalicare la loro stessa ragion d’essere, dividendo il CSM in parti contrapposte anche su temi riguardanti la posizione di singoli magistrati e dando corpo al sospetto di votazioni condizionate dalle rispettive appartenenze.
Ma ancora una volta, c’è da chiedersi se il rimedio non sia peggiore del male: una magistratura con una rappresentanza minoritaria e, per di più, casuale e raccogliticcia, come quella che uscirà dal sorteggio di tutti gli eleggibili, non sarà mai in grado di bilanciare il peso della componente laica, che, pur eguale in termini numerici, sarà rappresentata da laici, scelti per il loro elevato livello tecnico o scientifico, ma, inevitabilmente, anche per le loro vicinanze politiche.
Non va, infatti, dimenticata l’importanza dell’apporto culturale e civile, fornito per decenni al dibattito democratico, contro tutte le mafie ed il terrorismo di destra come di sinistra, da una Associazione Nazionale Magistrati, forte proprio delle idee nate ed elaborate dalle sue correnti interne.

b)

La lettura dei successivi artt. 8 e 9 del disegno di legge riformatore non lascia dubbi sul fatto che il vero obbiettivo della riforma sia la Magistratura, quale titolare del “potere giudiziario” nella sua attuale collocazione costituzionale; essa deriva dalla teoria della separazione dei poteri, di scuola illuminista, che gli attribuisce rango pari a quello degli altri due poteri, il legislativo e l’esecutivo.
La riforma, da un lato, riduce grandemente il ruolo dei 2 CSM (e c’è da chiedersi quanto continuerà ad essere giustificato il fatto che la presidenza di organi ridotti a rango meramente amministrativo resti assegnata al Presidente della Repubblica), sottraendo ad essi i provvedimenti disciplinari, cioè la più pregnante espressione dell’autonomia della magistratura, conferendone la competenza ad una costituenda Corte di Disciplina, divisa in 2 sezioni (giudici e pubblici ministeri) e con una composizione apparentemente simile a quella dei CSM, ma che, nella persona del presidente, assicura la maggioranza alla componente laica di nomina parlamentare; dall’altro, esclude la magistratura dalla partecipazione al dibattito democratico, oggi riconosciuta al suo organo di governo (di autogoverno). Per ottenere quest’ultimo risultato, si vieta ai 2 CSM di adottare atti di indirizzo politico e di esercitare funzioni che non siano previste dalla (nuova) Carta Costituzionale.
Per capire cosa si voglia cambiare, va ricordato che l’art. 10 della legge n.195/1958, che, anche se con un decennale ritardo, ha costituito il CSM in attuazione del dettato costituzionale, ha attribuito a quest’organo il potere di fare proposte al Ministro della Giustizia “sulle modificazioni delle circoscrizioni giudiziarie e su tutte le materie riguardanti l’organizzazione ed il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”, nonché di dare pareri al Ministro sui disegni di legge concernenti l’ordinamento giudiziario, l’amministrazione della giustizia e su ogni altro oggetto comunque attinente dette materie”.
Come si vede, gli interventi del CSM, che troppo spesso la politica va tacciando di indebita ingerenza, non fanno che rispondere ad un preciso potere-dovere, attribuito ad un organo, che i padri costituenti vollero di rilievo costituzionale, come tale partecipe, sia pure a titolo consultivo, delle scelte politiche in materia di giustizia.
Se questa riforma dovesse passare, la Magistratura non soltanto verrebbe privata di qualsiasi canale istituzionale, attraverso il quale far conoscere all’opinione pubblica i problemi della macchina giudiziaria, ma vedrebbe finanche chiudersi quella possibilità di interloquire annualmente con il Ministro tramite la relazione annuale sullo stato dell’amministrazione giudiziaria, prevista dal Regolamento del CSM del 1976 e demandata dalla riforma allo stesso Ministro (art. 13), che, con la medesima norma, incassa anche, e per la prima volta, l’attribuzione del rilievo costituzionale alla funzione ispettiva, già da lui esercitata.
Credo che, a questo punto del discorso, risulti chiaro che la riforma punta a ben altro e molto più in alto che alla separazione delle carriere.
Chi si illude che di questo soltanto si tratti, si ricordi la favoletta della mosca cocchiera; si chieda se, nel conflitto dei fondamentali principi ed interessi in campo, convenga, in questo momento, continuare a sbandierare una questione, che, pur logicamente condivisibile e, comunque, in gran parte risolta, apre la strada ad una riforma che mette la parola fine al rango costituzionale del CSM e pone in seria difficoltà quella tutela dell’indipendenza ed autonomia della Magistratura, che è un patrimonio essenziale della nostra democrazia. Un patrimonio del quale deve essere gelosa custode proprio l’Avvocatura, per prima interessata a difendere i propri clienti davanti a giudici credibili, perché indipendenti.
Ad allertare anche i più distratti, potrebbero bastare gli interventi di carattere lessicale, apparentemente innocui, che la riforma va proponendo: il titolo IV° della Costituzione non sarà più denominato “La Magistratura”, già collocata tra i soggetti dell’ Ordinamento della Repubblica, insieme al Parlamento, al Presidente della Repubblica, al Governo, alle Regioni, alle Province e ai Comuni. La nuova denominazione sarà “La Giustizia”. La denominazione della prima sezione non sarà più “Ordinamento Giurisdizionale”, ma “Gli Organi”; i giudici non eserciteranno più “la funzione giurisdizionale”, come recita l’attuale art. 102 della Costituzione, ma soltanto la “giurisdizione”; infine , pur continuando a costituire un ordine autonomo e indipendente, soggetto soltanto alla legge, la Magistratura non potrà più essere considerata uno dei poteri dello Stato, volta che sarà indipendente “da ogni potere”, non da ogni altro potere”, come oggi sta scritto nell’art. 101 della nostra Carta.
Gli autori di questa riforma hanno, evidentemente, ben chiara l’importanza ed il ruolo, anche nello scontro politico, dei termini identitari.

c)

Ma tanto detto, l’attenzione va rivolta al terzo importante bersaglio della riforma: il P.M.
Su questa figura, titolare dell’azione penale, si è sempre concentrata l’attenzione degli altri poteri dello Stato, insofferenti dei controlli. Ciò che rende insopportabile alla politica il ruolo del P.M., come è stato disegnato dai nostri costituenti, è l’impossibilità di condizionarne l’attività, tutelata dal principio di indipendenza, ma anche, forse ancora di più, dalla diffusione del potere-dovere di iniziativa. Le riforme Castelli e Mastella, irrigidendo la struttura gerarchica delle Procure e rendendone i capi direttamente responsabili dell’attività dei loro sostituti, hanno tentato di ridurre la diffusione di questo potere. Ma la pochezza dei risultati spinge la politica ad altre soluzioni, tutte, comunque, mirate al controllo del potere di iniziativa penale.
Ecco perché l’art. 109 della Costituzione, secondo il quale “l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria”, dovrebbe essere riformato come segue: “il giudice e il pubblico ministero dispongono della polizia giudiziaria secondo modalità stabilite dalla legge”.
Come si vede, basta togliere valore costituzionale alla parola “direttamente” e rimettere alla legge ordinaria la disponibilità della polizia giudiziaria da parte del P.M., perché basti la maggioranza parlamentare a togliergli gli attuali poteri di indagine e di iniziativa, attribuendoli ad una polizia alle dirette dipendenze del Ministro.
Ma anche questo non basta ad allontanare l’incubo dell’esercizio incontrollabile dell’azione penale da parte di un qualunque, ignoto pubblico ministero, dovunque collocato e, pur tuttavia, obbligatoriamente attivato da una intercettazione, una confessione, una documentazione bancaria sospetta e quant’altro ancora.
Ecco, allora, l’esigenza di intervenire sul principio, questo sì fondamentale, dell’obbligatorietà dell’azione penale.
il P.M., per la vigente Costituzione, ha l’obbligo di esercitare l’azione penale. Ora, è senz’altro vero che quest’obbligo, di fatto, finisce per restare in buona parte inadempiuto, vuoi perché i reati sono troppi e troppo pochi i pubblici ministeri, vuoi per la difficoltà del controllo e, ancora, per una interpretazione delle priorità che varia in ragione delle caratteristiche sociali, culturali e criminali delle diversissime realtà territoriali italiane. Ma questa obbligatorietà è ciò che rende concreta l’uguaglianza di tutti davanti alla legge; e su questa obbligatorietà si fonda anche l’indipendenza del Pubblico Ministero da ogni altro potere, perché essa da null’altro può derivargli che dall’essere soggetto soltanto alla legge.
Non tutti i paesi civili hanno adottato questo principio, ma, dove questa obbligatorietà è sostituita dalla discrezionalità del potere di azione penale, il controllo sull’iniziativa penale del P.M. è esercitato o dal potere esecutivo, cioè dal Ministro della Giustizia, come in Francia, o dalla comunità, chiamata ad eleggere il rappresentante dell’accusa, come accade negli Stati Uniti.
Entrambe queste diverse soluzioni sacrificano il principio di uguaglianza all’esigenza di fare una scelta tra i reati da perseguire, secondo priorità elaborate in sede politica; ed è chiaro che questa scelta, per la quale le risorse possono essere concentrate nella lotta a determinati reati, non a tutti, non può che essere rimessa, per la sua discrezionalità, a soggetti politicamente responsabili delle loro scelte davanti ai cittadini.
Ovviamente, il tema diventa di tanta maggiore importanza nei casi, come quello italiano, dove all’attuale libertà di iniziativa del Pubblico Ministero non corrispondono risorse umane ed economiche sufficienti a perseguire tutti i reati con la necessaria tempestività ed efficienza.
Una delle soluzioni meno costose, in alternativa all’abbandono del principio dell’obbligatorietà, è quella di procedere ad una riforma del Codice Penale, che limiti la sanzione penale e l’intervento del P.M. e del giudice ai fatti che creano allarme sociale, affidando la repressione di quelli di minore importanza ad organi amministrativi. Sono anni che se ne parla senza costrutti diversi dalla nomina di Commissioni deputate a questa riforma.
Così come sono anni che resta disattesa la richiesta di poter sospendere i processi, e con essi la prescrizione dei reati che ne sono oggetto, nei confronti degli imputati irreperibili, evitando di continuare a fare migliaia di processi a carico di imputati dei quali in Italia sia rimasto soltanto il nome (v. a Trieste).
Se è certo che non si può continuare così, alla gente va spiegato quali sono i vantaggi e gli svantaggi dell’una o dell’altra scelta.
E andrebbe anche spiegato in quale forma queste scelte potrebbero essere formulate e da quale organo: il Ministro? Il Parlamento?
Quello che mi sembra difficilmente condivisibile è affermare, come fa la riforma all’art. 12: “L’ufficio del P.M. ha l’obbligo di esercitare l’azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge”, togliendo al principio l’attuale rango costituzionale, per rimetterne la gestione ad un legislatore ordinario privo di qualsiasi superiore indirizzo.
d)
Ultimo bersaglio: il magistrato.
La riforma non sopprime la garanzia della inamovibilità, prevista dall’art. 107 della Costituzione a garanzia dell’indipendenza, ma ne compromette il livello costituzionale, sottomettendola alle eccezionali esigenze, che dovranno essere precisate dalla legge ordinaria.
Infine, con l’art. 16, arriva la responsabilità civile.
“I magistrati sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione di diritti, al pari degli altri funzionari e dipendenti dello Stato”.
A questo riguardo mi limito ad alcune pochissime osservazioni, rendendomi conto dell’ovvia, quanto troppo facile accusa di partigianeria, che il tema può riservarmi.
1) La norma sembra muovere dal principio di uguaglianza, ma ignora la lettura da sempre data a questo principio dalla nostra Corte Costituzionale: non si possono trattare in modo uguale situazioni diseguali.
Ora, è del tutto evidente che il lavoro del giudice, ed ancor più quello del pubblico ministero, pone il magistrato in potenziale situazione conflittuale con tutta l’utenza dei palazzi di giustizia: imputati e parti civili nel processo penale, attori e convenuti nel processo civile. A questo punto, il problema non riguarda tanto le condanne, probabilmente pochissime e giustificate, che il magistrato potrebbe subire, quanto il numero di azioni giudiziarie alle quali si troverebbe esposto, certo tale da costringerlo a contornarsi di avvocati, destinati a diventare con lui incompatibili, nonché ad occuparsi quasi esclusivamente dei suoi processi, più o meno come il nostro Presidente del Consiglio.
Per di più, e senza voler affrontare temi troppo tecnici, la riforma neppure prevede il limite della colpa grave, previsto dall’art. 2222 cod.civ. per tutti i prestatori d’opera intellettuale, impegnati nella soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà; colpa grave, ricordo, della quale, insieme al dolo, già oggi i magistrati debbono rispondere civilmente, sia pure indirettamente, dopo che, lo Stato sia stato condannato per il loro comportamento; mentre diretta resta, ovviamente, la loro responsabilità penale.
Il vero rischio per il cittadino sarà quello di magistrati che, di fronte alle gravi quotidiane responsabilità, finiscano per scegliere le soluzioni meno pericolose. Ed è evidente che quelle più pericolose hanno a che fare con i
più potenti e prepotenti.
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Credo, al termine di questa lunga chiacchierata, che una cosa ne risulti ben chiara: di tutti i temi trattati dalla riforma non ce n’è uno che riguardi la gravissima situazione operativa nella quale si trova la nostra giustizia; di tutte le nuove norme non ce n’è una che possa far sperare che la durata dei nostri processi assuma più civili dimensioni. .
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Attentato alla Costituzione ?
L’attentato consiste nella volontà di cambiarla? Ma è lo stesso art. 138 della nostra Carta a prevedere che si possano fare leggi di revisione della Costituzione, sia pure con modalità dissuasive di colpi di mano, nati da emergenze eccezionali, quanto momentanee (2 successive deliberazioni di ciascuna Camera con un intervallo di 3 mesi; approvazione a maggioranza assoluta nella seconda votazione; se l’approvazione non avviene con la maggioranza dei 2/3, il referendum abrogativo può essere richiesto entro 3 mesi da 1/5 dei membri di una Camera, da 500.000 elettori o da 5 Consigli Regionali).
Del resto, dalla sua entrata in vigore (1/1/’48) la Costituzione ha già subito varie importanti modifiche: v. le leggi cost. 9/2/1963 n. 2, 27/12/1963 n.3, 17/1/2000 n. 1 e 23/1/2001 n.1, riguardanti gli artt. 56 e 57 della Carta e relativi alla ripartizione dei seggi della Camera e del Senato, alla costituzione della Regione Molise, all’esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti all’estero ed alla costituzione della Circoscrizione Estero; v. la legge cost.16/1/’89 n. 1, che ha sottratto i ministri al giudizio della Corte Costituzionale; v. la legge cost. 4/11/1991 n. 1, che limita la facoltà del Presidente della Repubblica di sciogliere le camere negli ultimi 6 mesi del suo mandato: v. la legge cost. 6/3/’92 n. 1 in tema di amnistia e indulto; v. la legge cost. 23/11/’99 n. 2 in tema di processo giusto, quanto a parità tra accusa e difesa, nonché a ragionevole durata; v. la legge cost. 18/10/’01 n.3, che ha riscritto il titolo V° in tema di Regioni, province e comuni; v. la legge cost. 23/10/’02 che ha ridato ai membri di casa Savoia i diritti di elettorato e di permanenza sul territorio nazionale; v. la legge cost. 30 maggio 2003 n. 1 in tema di pari opportunità tra donne e uomini; v. la legge cost. 2/10/2007 n.1, che ha soppresso la pena di morte anche nelle leggi militari di guerra.
Nasce, allora, la domanda: fino a che punto la Costituzione può essere cambiata senza che possa parlarsi di attentato alla sua stessa esistenza, cioè di un intervento legislativo, che per la differente ispirazione e portata, ne distrugga i caratteri fondamentali?
Dove stanno, in definitiva, i paletti che difendono quei principi fondamentali, senza i quali la nostra Carta non è più la stessa?
Il quesito è aperto, anche troppo, se si considera che di questi paletti i padri costituenti ne hanno espressamente indicato soltanto uno: “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”.
E si tratta di un quesito di grande attualità, dato che si continua a parlare di riforme costituzionali, che dovrebbero avere una portata epocale.
Mortati, sul cui testo istituzionale ho avuto, a suo tempo, la fortuna di studiare, aveva messo a punto due concetti fondamentali: 1) le leggi costituzionali, comprese quelle di revisione, discendono dalla Costituzione, che le prevede, e, pertanto, nella gerarchia delle fonti, non possono avere un grado pari a quello della loro matrice normativa; 2) le leggi di revisione debbono, pertanto, rispettare “i principi essenziali del tipo di Stato quale risulta dall’ordinamento in atto”.
E, a giudicare l’osservanza di questo rispetto, sarà la Corte Costituzionale, che, con la sentenza n. 1146 del 1988, ha affermato che la Costituzione contiene alcuni principi supremi, che non possono essere modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale.
Ovvio che, a questo punto, il dibattito finisca con il riguardare i valori ed i principi supremi, sui quali si fonda la Costituzione italiana.
Tra questi, il principio democratico, innanzitutto, che, indipendentemente dalla forma di governo, parlamentare o presidenziale che sia, impone il rispetto della democrazia rappresentativa, e dei principi, senza i quali il principio democratico resterebbe inattuato: l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, a cominciare da quella Corte Costituzionale, alla quale è rimessa la difesa istituzionale dell’intero sistema; l’imparzialità della pubblica amministrazione; la tutela delle minoranze; la tutela della persona di fronte alla sovranità politica; il pluralismo delle associazioni e dei fini che queste possono perseguire; la tutela e l’obbligo per lo Stato di promuovere le opportunità di lavoro per i cittadini.

Credo, con questo, di dover chiudere, ringraziandovi per essere stati ad ascoltare ed invitandovi al dibattito su almeno qualcuno dei molti temi in discussione.