Riscoprire Gandhi,
per raccogliere le sfide della nonviolenza oggi
Di Nanni Salio
Mohandas Gandhi è il fondatore della nonviolenza. Nato a Portbandar in India nel 1869, studi legali a Londra, avvocato, nel 1893 in Sud Africa, qui divenne il leader della lotta contro la discriminazione degli immigrati indiani ed elaborò le tecniche della nonviolenza. Nel 1915 tornò in India e divenne uno dei leader del Partito del Congresso che si batteva per la liberazione dal colonialismo britannico. Guidò grandi lotte politiche e sociali affinando sempre più la teoria-prassi nonviolenta e sviluppando precise proposte di organizzazione economica e sociale in direzione solidale ed egualitaria.
Fu assassinato il 30 gennaio del 1948. Sono tanti i meriti ed è tale la grandezza di quest’uomo che una volta di più occorre ricordare che non va mitizzato, e che quindi non vanno occultati limiti e contraddizioni, che pure vi sono, della sua figura, della sua riflessione, della sua opera.
Opere di Gandhi: essendo Gandhi un organizzatore, un giornalista, un politico, un avvocato, un uomo d’azione, oltre che una natura profondamente religiosa, i suoi scritti devono sempre essere contestualizzati per non fraintenderli; Gandhi considerava la sua riflessione in continuo sviluppo, e alla sua autobiografia diede significativamente il titolo Storia dei miei esperimenti con la verità.
In italiano l’antologia migliore è Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi; si vedano anche: La forza della verità, vol. I, Sonda, Torino-Milano 1991; Villaggio e autonomia, LEF; l’autobiografia tradotta col titolo La mia vita per la libertà, Newton Compton; La resistenza nonviolenta, Newton Compton; Civiltà occidentale e rinascita dell’India, Movimento Nonviolento; La cura della natura, LEF. Altri volumi sono stati pubblicati da Comunità: la nota e discutibile raccolta di frammenti Antiche come le montagne; da Sellerio: Tempio di verità; da Newton Compton: e tra essi segnaliamo particolarmente Il mio credo, il mio pensiero, e La voce della verità. Altri volumi ancora sono stati pubblicati dagli stessi e da altri editori. I materiali della drammatica polemica tra Gandhi, Martin Buber e Judah L. Magnes sono stati pubblicati sotto il titolo complessivo Devono gli ebrei farsi massacrare?, in “Micromega” n. 2 del 1991. Opere su Gandhi: tra le biografie cfr. B. R. Nanda, Gandhi il mahatma, Mondadori; il recente accurato lavoro di Judith M. Brown, Gandhi, Il Mulino; il recentissimo libro di Yogesh Chadha, Gandhi, Mondadori. Tra gli studi cfr. Johan Galtung, Gandhi oggi, Edizioni Gruppo Abele; Icilio Vecchiotti, Che cosa ha veramente detto Gandhi, Ubaldini; ed i volumi di Gianni Sofri: Gandhi e Tolstoj, Il Mulino (in collaborazione con Pier Cesare Bori); Gandhi in Italia, Il Mulino; Gandhi e l’India, Giunti.
Una importante testimonianza è quella di Vinoba, Gandhi, la via del maestro, Paoline. Per la bibliografia cfr. anche Gabriele Rossi (a cura di), Mahatma Gandhi; materiali esistenti nelle biblioteche di Bologna, Comune di Bologna.
Altri libri utili disponibili in italiano sono quelli di Lanza del Vasto, William L. Shirer, Ignatius Jesudasan, George Woodcock, Giorgio Borsa, Enrica Collotti Pischel, Louis Fischer.
Un’agile introduzione è quella di Ernesto Balducci, Gandhi, ECP. Una interessante sintesi recente è quella di Giulio Girardi, Riscoprire Gandhi, Anterem, Roma. Tra gli studi piu’ persuasivi su Gandhi e la nonviolenza vi sono ovviamente quelli, semplicemente fondamentali, di Giuliano Pontara]
“Le generazioni future faticheranno probabilmente a credere che un uomo simile si sia mai realmente aggirato in carne ed ossa su questa terra” (Albert Einstein)
Quando sono nel dubbio, quando la violenza e la follia che imperversano nel mondo sembrano crescere oltre ogni limite, cancellando la speranza in un futuro migliore, cerco rifugio e ispirazione negli scritti di Gandhi e sinora ho sempre trovato conforto, aiuto, saggezza, consigli su cosa fare e su cosa dire ad altri che si sentono anch’essi smarriti.
Gandhi e’ il Buddha e il Gesu’ Cristo del XX secolo, che ci permette di rivivere, ripensare e riproporre il messaggio della nonviolenza attiva nel contesto sociale e politico attuale.
* Ahimsa e satyagraha
La scelta dei vocaboli, l’uso intelligente e attento del linguaggio, la capacita’ di mantenere il controllo delle parole per evitare di usarle come “pietre” (Carlo Levi), la chiarezza e la precisione concettuale, sono condizioni essenziali della comunicazione nonviolenta.
Ahimsa (letteralmente, nonviolenza, ma secondo altre sfumature anche “non-nuocere”, “in-nocentia”) e’ un termine antichissimo della cultura induista, a tal punto che il “canone del jainismo” e’ considerato “la piu’ antica dottrina della nonviolenza” (Sri Jinandra Varni e Sargamal Jain, a cura di, Sannan Suttam, Mondadori, Milano 2001).
Ma Gandhi va oltre. Egli ritiene insufficiente per il compito che si e’ proposto, la trasformazione nonviolenta della societa’, il concetto di ahimsa, che spesso viene confuso con un atteggiamento passivo, e introduce un altro vocabolo, satyagraha, che riassume meglio la sua filosofia di azione politica diretta nonviolenta.
La raccolta di scritti presentata in questo testo, che nell’edizione originale porta l’impegnativo titolo di “scienza del satyagraha”, e’ una introduzione a questo aspetto centrale del pensiero di Gandhi. Si potrebbe dire che tutta la sua vita, come egli stesso ha piu’ volte ribadito, e’ stata una incessante serie di “esperimenti” sulla via del satyagraha.
Letteralmente, questo termine puo’ essere tradotto come “forza della verita’”. Ma lo si puo’ anche rendere con altri significati, usati da Gandhi stesso: “persistere nella verita’”, “ricerca della verita’”, “forza dell’animo”, “forza che deriva dalla adesione alla verita’”, “dire la verita’”. In quest’ultima accezione e’ usato frequentemente nel mondo anglosassone con la frase “speaks truth to power”, dire la verita’ al potere o, meglio ancora, ai potenti.
La strada del satyagraha tracciata da Gandhi e’ molto impegnativa, come si evince chiaramente da queste pagine. Coloro che intendono seguirne l’insegnamento debbono addestrarsi a una rigorosa autodisciplina del corpo e della mente, perfezionandola costantemente al fine di raggiungere una totale capacita’ di autocontrollo che consenta di agire con coraggio, assoluta determinazione e com-passione.
* La ricerca della verita’
Il termine verita’ e’ quanto di piu’ impegnativo ci sia tanto sul piano filosofico quanto su quello scientifico, religioso e sociale. Nel linguaggio di Gandhi, questo vocabolo ricorre frequentemente, ma egli e’ consapevole del fatto che la nostra condizione umana ci porta a una ricerca senza fine, a una continua approssimazione alla verita’. In altre parole, la sua e’ una concezione di verita’ relativa, non di verita’ assoluta, come chiarisce bene
Giuliano Pontara nella sua ampia introduzione a una ormai classica antologia di scritti gandhiani (Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino 1996). Gandhi stesso ha intitolato la sua autobiografia “esperimenti con la verita’”, una espressione suggestiva, di grande saggezza e modernita’, che permette di capire perche’ si possa parlare di “scienza del satyagraha e della nonviolenza”. Se la scienza moderna e’ una continua ricerca della verita’ per “prove ed errori”, anche il metodo seguito da Gandhi, su un terreno diverso, quello dell’etica, della ricerca interiore (l'”entronauta” anziche’ l'”astronauta”) si richiama allo stesso principio, ben presente nella lunga tradizione speculativa filosofica delle cultura indiana. (Non a caso, l’ultimo capitolo del gia’ citato “canone del jainismo” si intitola “La teoria jainista della relativita’ conoscitiva”).
Vista in questa prospettiva, l’apparente rigidita’ di Gandhi nell’applicare la disciplina del satyagraha sembra assumere lo stesso significato che per uno scienziato ha “il controllo delle variabili” nel corso di un esperimento. Cosi’ come per svelare le “leggi della natura” occorre tenere sotto controllo le variabili del sistema sul quale si sta indagando, anche per scoprire le “leggi della natura umana” e’ necessario controllare le variabili del nostro comportamento.
* Un approccio religioso
Quasi tutti i grandi maestri della nonviolenza hanno tratto la loro ispirazione da un approccio di natura religioso inteso in senso aperto e non confessionale, secondo uno spirito che richiama quello della “religione aperta” di Aldo Capitini. Gandhi sostiene esplicitamente che tutte le religioni sono come i rami di uno stesso albero che affonda le radici nella nonviolenza. E il satyagraha, oltre a una modalita’ di azione, e’ una ricerca della verita’ che conduce a Dio. Ma quello di Gandhi e’ un dio interiore, una divinita’ che e’ presente in noi stessi, quella che lui chiama la “voce interiore”, la voce della coscienza che dobbiamo ascoltare e mantenere vigile. E’ una visione tolstoiana del “regno di Dio che e’ in voi” e al tempo stesso una visione che comprende anche le cosiddette “religioni atee”, il buddhismo e il jainismo.
Gandhi sostiene inoltre che e’ meglio dire che “la verita’ e’ Dio”, e non viceversa, perche’ nella continua ricerca lungo la quale siamo incamminati ci possiamo accostare sempre piu’ alla verita’, e di conseguenza a una concezione del divino inteso come somma conoscenza, senza tuttavia raggiungere mai pienamente la meta.
* Un approccio laico
Se da un lato il messaggio piu’ profondo comune a tutte le religioni e’ quello della nonviolenza, dall’altro constatiamo che assai sovente i testi sacri sono stati interpretati e usati per giustificare la guerra. La stessa esperienza di Gandhi e’ stata pesantemente segnata dall’enorme tragedia del conflitto tra indu’ e musulmani, sfociato nel terribile massacro della “pulizia etnica” durante la spartizione che ha dato origine al Pakistan. E’ una tragedia che continua tuttora, segnata da integralismi, fondamentalismi e terrorismi sotto l’incubo della guerra nucleare. L’ambiguita’ dei testi sacri di quasi tutte le religioni e’ uno dei dilemmi piu’ gravi e difficili da risolvere di ogni macrocultura. Basti pensare a Gerusalemme, che molti considerano citta’ della pace per eccellenza e che invece e’ lacerata da oltre mezzo secolo di guerre. I grandi testi, Bibbia, Corano, Torah, Bhagavad Gita, si prestano a letture contrapposte di giustificazione della guerra (guerra santa, guerra giusta) oppure di totale negazione. Persino alcune scuole del buddhismo (considerato da molti la macrocultura piu’ aliena dal fenomeno guerra, come sostiene Johan Galtung in Buddhismo. Una via per la pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994) sono state pesantemente implicate nella guerra e nella sua giustficazione, come ha documentato in modo impressionante Brian Victoria (Lo zen alla guerra, Sensibili alle foglie, Dogliani 2001).
E’ questa una delle ragioni che puo’ indurre ad aprire un’altra linea di ricerca: un approccio laico alla nonviolenza. Ma se da un lato alcuni osservano (Barbara Spinelli), non certo con piacere, che duemila anni di cristianesimo non sono stati sufficienti a insegnare agli uomini la cultura della nonviolenza e dell’amore, dall’altro si deve altrettanto amaramente constatare che neppure l’approccio laico e’ approdato a risultati significativi. Anzi, la ricerca scientifica e tecnologica e’ stata piegata agli interessi del complesso militare-industriale con esiti devastanti e spaventosi. La stessa democrazia, prima approssimazione della nonviolenza, e’ in grave crisi proprio in quei paesi di piu’ lunga tradizione democratica. Accanto agli integralismi e ai fondamentalismi di natura religiosa, ne sono sorti altri, di matrice laica: il FMI (ironicamente definito fondamentalismo monetario internazionale), che e’ uno dei principali strumenti di un economicismo fine a se stesso; il nuclearismo e la incessante corsa agli armamenti, che portano alle estreme conseguenze la follia sfrenata del militarismo.
Questa cultura laica si trova oggi in una impasse non dissimile da quella degli integralismi religiosi. L’unica autentica alternativa e’ offerta dalla ricerca aperta dai maestri della nonviolenza.
* La trasformazione nonviolenta dei conflitti
L’approccio scientifico alla nonviolenza che puo’ contribuire a unificare e a far crescere sia l’approccio religioso sia quello laico si chiama oggi “trasformazione nonviolenta dei conflitti”. (Si veda a tale proposito il testo, con questo stesso titolo, di Johan Galtung, nelle Edizioni Gruppo Abele, Torino 2000). Un considerevole numero di ricercatori e di operatori di pace lavorano in questo campo, con approcci disciplinari molteplici e seguendo un’ampia gamma di metodologie. I risultati ottenuti sia sul piano teorico sia nell’esperienza sul campo tendono sostanzialmente a confermare le intuizioni dei grandi maestri, in particolare quelle espresse da Gandhi nella sua “scienza del satyagraha”.
I lavori pionieristici di Gene Sharp, di Johan Galtung, di Theodor Ebert, che hanno permesso di fondare la teoria della difesa popolare nonviolenta, sono alla base degli sviluppi successivi nel campo della mediazione, della interposizione e dell’intervento nonviolento in situazioni di conflitto acuto.
Contrariamente a quanto sostengono i fautori del “realismo politico”, oggi il vero realismo e’ quello di coloro che considerano il conflitto come una caratteristica specifica della condizione umana dalla quale non si puo’ prescindere, ma che non e’ sinonimo ne’ di violenza ne’ tantomeno di guerra.
L’arte e la scienza che dobbiamo continuare ad apprendere e a sviluppare sono proprio quelle del satyagraha inteso come modalita’ di gestione, risoluzione e trasformazione nonviolenta del conflitto. E’ questa la piu’ preziosa eredita’ che Gandhi ci ha lasciato e di cui dobbiamo fare tesoro.
* Kamikaze e satyagrahi
Non possiamo parlare di nonviolenza senza fare almeno un cenno alla condizione che si e’ venuta a creare dopo gli attentati dell’11 settembre scorso e la “guerra al terrorismo” che ne e’ seguita. Che cosa ci insegna la nonviolenza, che cosa ci direbbe Gandhi a tale proposito? Ce lo ricorda uno dei suoi nipoti, Arun Gandhi, in un breve testo su “terrorismo e nonviolenza”, con le seguenti parole: “Quando sono disperato mi ricordo che lungo tutta la storia la via della verita’ e dell’amore ha sempre vinto; ci sono sempre stati tiranni e assassini, e per qualche tempo essi possono sembrare invincibili, ma alla fine cadono sempre” (in “Azione Nonviolenta”, ottobre 2001). Se, come afferma Gandhi, “la nonviolenza e’ antica come le colline”, anche il terrorismo non e’ da meno. Egli stesso ha dovuto confrontarsi con questi problemi sin dal 1929, in seguito a un attentato compiuto nei confronti dell’allora vicere’ inglese da parte di un gruppo di terroristi indiani dell’Hindustan Socialist Republican Association, noto peraltro per aver pubblicato uno dei piu’ significativi documenti sul terrorismo del secolo scorso, The Philosophy of the Bomb (Questo testo, disponibile all’indirizzo www.punjabilok.com/misc/freedom/phil_ofbomb1.htm , e’ segnalato da Chaiwat Satha-Anand in “Comprendere il terrore e fare la scelta giusta”, www.arpnet.it/regis). Non ci si deve inoltre dimenticare che sia Gandhi sia Martin Luther King sono stati entrambi uccisi nel corso di azioni di stampo sostanzialmente terrorista.
A questo punto, e’ necessario confrontarsi con un aspetto fondamentale della nonviolenza che Gandhi affronta e approfondisce in questo testo e piu’ in generale in tutta la sua opera: l’atteggiamento del satyagrahi di fronte alla morte. E’ il grande tabu’ della cultura occidentale: la rimozione della morte (si veda in proposito un ottimo articolo: Beppe Sebaste, “Sara’ cosi’ lasciare la vita?”, L’Unita’, 6 ottobre 2001). Gandhi ribadisce e ripete piu’ volte con sfumature diverse il seguente concetto: la nonviolenza del forte, del coraggioso, implica il superamento della paura della morte, la capacita’ di fronteggiare a mani nude la potenziale violenza omicida dell’avversario, la disponibilita’ al sacrificio estremo della propria vita senza mettere e repentaglio quella altrui, anzi addirittura per difenderla.
C’e’ in questa concezione una straordinaria e stupefacente simmetria con quella che potremmo chiamare “l’etica del kamikaze”, e che si puo’ rappresentare in maniera piu’ evidente mediante lo schema in figura [che non riportiamo qui, date le caratteristiche grafiche di queste pagine – ndr].
Il kamikaze ha in comune con il satyagrahi la disponibilita’ a morire, ma ne differisce radicalmente perche’ il primo si immola per uccidere, il secondo mette a disposizione la propria vita in un gesto estremo di amore e riconciliazione.
Lo schema interpretativo che abbiamo proposto comprende altre due possibilita’ che possiamo chiamare rispettivamente violenza del debole e nonviolenza del debole. La violenza del debole e’ in generale quella dei mercenari, dei killer pagati per uccidere, ma non disposti a morire. Ed e’ soprattutto la filosofia elaborata dalla dottrina militare imperante negli Usa e nella Nato che tende a sostituire gli esseri umani con l’high-tech al fine di combattere guerre a “costo zero” di vittime tra le proprie file. Le guerre combattute nel corso dell’ultimo decennio (Irak, Yugoslavia, Afghanistan) dagli Usa hanno tutte quante in comune questa caratteristica. Ma come hanno sottolineato molti critici, le guerre non si vincono realmente senza la disponibilita’ al sacrificio, anche estremo. I kamikaze che si sono schiantati contro le torri gemelle a New York e contro il Pentagono non possedevano armi intelligenti (anche se hanno trasformato normali tecnologie civili in strumenti di morte), ma erano disposti a combattere sino a trasformarsi in uomini-bomba, come in Palestina, nello Sri Lanka e ovunque vi sia chi, per disperazione, fanatismo o convinzione, aderisce alla “filosofia della bomba”.
I satyagrahi, come i bodhisattva, come i “giusti” della tradizione ebraica, come Gesu’ Cristo nella tradizione cristiana, come il Mahatma Gandhi e Martin Luther King, sono disposti anch’essi a donare la propria vita, ma lo fanno per amore, con compassionevolezza, distacco, consapevolezza dell’ipermanenza e sguardo che va oltre il presente. (Si vedano le splendide storie dei bodhisattva raccontate da Jataka, Storie buddiste, Trankida, Milano).
Anche la quarta possibilita’ delineata nello schema, la nonviolenza del debole, si presta ad alcune riflessioni interessanti. Non c’e’ una figura specifica che caratterizzi questa posizione, perche’ chi piu’ chi meno gran parte di noi non intende uccidere, ma non e’ neppure disposto e preparato a sacrificare la propria vita. Qualcuno potrebbe obiettare che in fondo questo dovrebbe essere proprio il punto di arrivo di una societa’ nella quale non sia necessario ne’ uccidere ne’ morire. In altre parole, sarebbe l’esito di una graduale evoluzione positiva verso una societa’ autenticamente democratica e nonviolenta, una societa’ che non ha bisogno di eroi. Ma purtroppo siamo ben lungi da questo risultato e sia nel quotidiano, sia “di fronte all’estremo” (Tzvetan Todorov) abbiamo ancora bisogno dei satyagrahi e dei bodhisattva che ci guidino, come “primi in cordata”, per aiutarci a superare difficolta’ e ostacoli che ci impediscono di progredire.
* Raccogliere la sfida della nonviolenza
E’ dunque questa la sfida lanciata da Gandhi con la “scienza del satyagraha”: accettare la sofferenza sino al sacrificio estremo, se necessario, come strumento sia della nostra realizzazione sia di riumanizzazione e conversione dell’avversario. Il satyagrahi si allena giorno per giorno, in ogni istante della propria vita, per diventare capace di soffrire con gioia e apprendere la difficile arte del dono della vita.
Egli agisce senza recriminazioni, con distacco, senza aspettarsi il risultato immediato delle proprie azioni e senza rivendicarne il merito. Non si stupisce della violenza che puo’ essergli inflitta, non agisce con rabbia e utilizza ogni occasione che gli si presenta per trasformare il male con il bene.
Nel leggere questo breve, ma denso, testo si capisce quanta strada dobbiamo ancora fare tutti noi che, mossi da nobili intenzioni, ci siamo meravigliati e indignati per la violenza e la repressione che e’ stata scatenata contro i manifestanti durante le manifestazioni di massa di protesta nei confronti del vertice del G8 a Genova. Oltre alla giusta indignazione, dovremmo sollevare alcune domande imbarazzanti: come si sarebbero comportati i satyagrahi? Come si comporterebbero oggi nella lotta al terrorismo?
Sono questi gli interrogativi che il popolo dei lillipuziani deve avere il coraggio di porsi, se vuole effettivamente ed efficacemente percorrere la strada della nonviolenza attiva.
1948-1998, Gandhi cinquant’anni dopo, di Mao Valpiana
Gandhi, la nonviolenza e il nazionalismo, di Fulvio Cesare Manara
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