Di Graziano Zoni *
Il 27 gennaio 1985, l’Abbé Pierre venne chiamato a concludere, in Palazzo Vecchio a Firenze, il seminario che aveva per tema: “Contro la fame, cambia la vita”.
In quella occasione, l’Abbé Pierre fece alcune osservazioni che penso possono efficacemente
introdurre le considerazioni che vorrei condividere con gli amici lettori di Azione nonviolenta.
Ecco l’inizio dell’intervento del fondatore di Emmaus: “Quando ho visto il vostro manifesto:
“Contro la fame cambia la vita”, ho pensato che ciò potesse avere due significati. Uno, imperativo:
Tu, prendi delle iniziative per cambiare la vita. Ma è altresì evidente, l’ulteriore significato,
non più un imperativo, ma semplicemente uno sguardo realista. Non più, soltanto, che ciascuno di noi deve cambiare la propria vita, ma: ‘ Apri gli occhi. Anche senza di te, la vita cambia!’.
La differenza è evidente. La vita cambia, e questo cambiamento avverrà o attraverso le nostre iniziative, il nostro cambiamento, oppure, senza di noi, a suon di pedate nel sedere. Questo mondo così com’è non ha futuro. Non dipende dalle nostre opinioni… è un’evidenza lampante, per più di una ragione.
I politici, in Francia come in Italia ed ovunque, si arrabattano per presentare agli elettori il proprio programma e dicono: “Votate per me, se volete uscire dal tunnel di questa crisi economica che ci tormenta”.
Non commettete l’errore di crederci. Si tratta di un inganno. La verità è che non c’è uscita da questo tunnel.
Ciò che possiamo iniziare a intravedere è il fondo del tunnel. Questo tunnel nel quale l’umanità si è trovata impegnata da secoli, avendo come spinta di ogni iniziativa: Avere di più, avere di più. E’ un cammino che finisce contro un muro. Non c’è che una sola speranza, quali che siano le opinioni dei partiti politici. Questa sola speranza è che sappiamo essere capaci, tutti, di fare qualche passo indietro.
Volontario, per ritrovare la strada aperta. Continuare a inventare stratagemmi, trucchi, illusioni,
per cercare di uscire dallo stallo in cui ci troviamo, è pura follia.”
Altre voci, in passato ed anche in tempi recenti, si sono levate per lanciare un richiamo, forte e ripetuto, al rifiuto del consumismo, ma sono rimaste “voci che gridano nel deserto”.
Gioverà ricordarne alcune: Giovanni Paolo II, ad esempio, già nella enciclica Sollicitudo Rei
Socialis e qualche giorno prima dello scorso Natale, aveva affermato che “l’accumulo di beni e servizi, anche a favore della maggioranza, non basta a realizzare la felicità umana… Una sorta di supersviluppo… consistente nella eccessiva disponibilità di ogni tipo di beni materiali, rende facilmente gli uomini schiavi del possesso…”
Il filosofo francese Roger Garaudy, aveva scritto nel suo “Appel aux vivants” (1979) che “se vivremo i prossimi venti anni come abbiamo vissuto gli ultimi trenta, prepareremo una bara per i nostri figli…”
Il Presidente americano Carter, nel suo discorso di investitura, faceva osservare alla nazione
l’insostenibilità della realtà del mondo: “Noi americani che rappresentiamo il 6% della popolazione mondiale, possediamo e consumiamo il 30% delle risorse e ricchezze disponibili sulla terra…. quale legge matematica può rendere possibile al restante 94% della popolazione la disponibilità della stessa quantità di beni, di ricchezze, di energie?….” (Sono passati molti anni, Carter è tornato alle sue noccioline… ha ricevuto pure il Nobel della Pace, ma se cambiamenti ci sono stati in quelle percentuali, sono peggiorativi, per l’America come per l’Europa…)
In Italia abbiamo avuto un politico intelligente e lungimirante come Enrico Berlinguer che in due
famosi e provocatori discorsi (purtroppo immediatamente dimenticati ed archiviati anche dal PCI e successive modifiche o rifondazioni) del gennaio 1977 all’Eliseo di Roma e del marzo 1979 al Lirico di Milano, prospettava con forza e convinzione, la sobrietà e l’austerità come leva di
giustizia… “L’austerità per definizione comporta restrizioni di certe disponibilità a cui si
è abituati, rinunce a certi vantaggi acquisiti: ma noi siamo convinti che non è detto affatto che
la sostituzione di certe abitudini attuali con altre, più rigorose e non sperperatrici, conduca ad
un peggioramento della qualità e della umanità della vita. Una società più austera può essere una società più giusta, meno diseguale, realmente più libera, più democratica, più umana….”
(Documenti de L’Unità – n.136, 11.6.1989)
Di fronte alla saggezza di questi ripetuti richiami alla giustizia ed al rispetto dell’ambiente
sia per noi che per i nostri figli e nipoti, dobbiamo constatare la folle miopia, volutamente
portata avanti dalla classe dominante che non curante dell’evidenza dei danni provocati dal consumismo sfrenato, non perde occasione per incitare a “consumare, consumare, consumare”, dando così prova di una irresponsabilità globale davvero diabolica. E, terribile cassa di risonanza, purtroppo efficace, a questa follia dominante, è la pubblicità, ormai divenuta l’aria che respiriamo, per effetto della quale il superfluo diventa conveniente, il conveniente diventa necessario, il necessario si trasforma in indispensabile.
Ma, sarebbe molto comodo e tranquillizzante attribuire la responsabilità di questa ingiustizia
strutturale ed istituzionalizzata, qual è il consumismo, ai magici poteri di anonimi persuasori occulti, oppure ad anonime e funeste società sovranazionali, o ad uno o due colossi industriali o potenze politiche imperialiste oppure ai “governi di destra” che oggi reggono, ahimè ciecamente!, le sorti del mondo… il fatto più assurdo è che tutti ammettiamo la necessità di fare qualcosa di efficace per cambiare il mondo, ma nessuno, o almeno molto pochi sono coloro che fanno qualcosa.
Lo strapotere di questi “gestori” senz’anima del futuro del mondo, è dovuto fondamentalmente alla nostra debolezza, alla nostra incoerenza, alla nostra scarsa convinzione che, ancora una volta, il piccolo David può vincere il gigante Golia.
Per creare questa società “consumista”, i cui drammi ci fanno soffrire, si è cominciato “condizionando” ed “educando” l’Uomo “consumista” che ne è il suo elemento base.
Allo stesso modo, e con la stessa capillarità e convinzione, volendo dare vita ad una società giusta ed equilibrata con possibilità di sopravvivenza umana per tutti, dovremo cominciare con il costruire l’Uomo “libero e giusto”.
All’Uomo dei consumi, egocentrico, egoista, più ossessionato dal possedere che dal condividere,
schiavo dei bisogni che egli stesso si crea, insoddisfatto ed invidioso, e per il quale l’unico
principio morale è quello di accumulare sempre di più, noi dobbiamo proporre l’Uomo “libero e giusto”,
l’Uomo che non aspira ad avere di più, ma ad essere migliore, a sviluppare la sua capacità di servizio verso gli altri nella solidarietà, capace di vivere felice nel “sufficiente” misurato con il metro sociale dei bisogni e dei diritti altrui, secondo quando sta scritto nell’Esodo: “Chi molto ne raccolse, non ne ebbe di più; e chi poco, non ne ebbe di meno”.
Bisogna che ci convinciamo tutti che la sobrietà è la sola scelta di vita, politica, sociale ed economica, che possa garantirci un futuro umano. Non più, o non solo, una virtù, ma un doveroso atto politico di giustizia.