Lanza del Vasto

Vogliamo celebrare il centesimo anniversario della nascita di Giovanni Giuseppe Lanza del Vasto (1901 – 1981) ricordandone la figura e gli insegnamenti. Abbiamo chiesto a studiosi e seguaci di scrivere alcune riflessioni per i lettori di Azione nonviolenta.

Gandhi e Vinoba, maestri di nonviolenza
due figure ispiratrici per Lanza del Vasto

A cura di Alberto Pelissero

Un primo parallelo che ci pare utile proporre è quello tra Lanza del Vasto e Aldous Huxley. Entrambi scrittori di razza, il secondo anche (soprattutto) professionalmente, entrambi inclini a una mistica di tipo intellettuale, entrambi di estrazione sociale elevata, entrambi protagonisti di una conversione, duplice e più marcata per il primo, di difficile collocazione temporale per il secondo, approdano a esiti molto diversi. Il concetto di conciliazione in Lanza del Vasto presenta qualche parallelo con quello di philosophia perennis fatto proprio da Huxley. Quel che segna la profonda differenza tra i due è che Huxley è un razionalista agnostico che finisce con l’aderire a un misticismo razionalista, mentre Lanza del Vasto non smarrisce mai la propria formazione cristiana, incardinata nel dogma trinitario.
Se la distanza tra Huxley e Lanza del Vasto appare incolmabile, in un certo senso il nostro autore si può proporre come il contraltare di Vinobâ Bhâve. Entrambi discepoli di Gândhî, restano ciascuno fedele alla propria tradizione religiosa, dimostrando con l’esempio di vita e con un appassionato studio personale che dura per tutta la loro esistenza che si può restare ciascuno ancorato alla propria posizione, mantenendo però un vivo e non superficiale interesse per l’altro, in una prospettiva di dialogo rispettoso, che non mira alla conversione ma alla reciproca conoscenza.
Si potrebbero leggere Lanza del Vasto e Vinobâ come figure parallele, essendo entrambi discepoli di Gândhî, e soggetti di un percorso spirituale per certi aspetti simile. Ciascuno di loro resta fedele alla propria tradizione religiosa, il cristianesimo per il primo, lo hindûismo per il secondo, accettando gli stimoli e i suggerimenti di una visione religiosa differente. La sintesi tra prospettive religiose diverse era stata tentata da Gândhî, in cui l’intreccio tra suggestioni cristiane (protestanti, ma anche ortodosse, pensando all’ispirazione tolstoiana), hindû (vaiïãava) e jaina appare inestricabile. Vinobâ propende invece decisamente per lo hindûismo, Lanza del Vasto dal canto suo per il cristianesimo.
La visione centrale di Vinobâ è rappresentata da una figura divina e da un concetto. La figura divina è Daridranârâyaãa, il “signore degli uomini povero”, che affonda le sue radici nella devozione popolare vaiïãava e che ha come unico punto di contatto con la visione cristiana la figura biblica del “servitore sofferente” di Dio della tradizione che fa capo a Isaia. Punto di contatto possibile ma non probabile, dal momento che il “servitore sofferente” si proietta da un lato nella figura del giusto che redime il mondo nella tradizione talmudica e del Cristo redentore in quella cristiana. Daridranârâyaãa invece non ha una precisa figura di riferimento: resta pur sempre una figura divina, specificamente un avatâra, una “discesa” sulla terra di una divinità, ma non si concretizza in un personaggio dai contorni definibili. Forzando un po’ la prospettiva si potrebbe dire che si tratta di una traduzione in termini indiani del concetto di Messia e della necessità di scorgere Dio nel più umile tra gli umili. È anche questo, ma non è soltanto questo. Il concetto poi è quello di sarvodaya, “benessere per tutti”, intendendo però con “benessere” non tanto un equivalente di welfare, ma soprattutto un “sorgere”, un “(ri)sorgimento”, dal momento che udaya indica propriamente fenomeni come il levare del sole, il levarsi da sedere, l’elevarsi anche in senso figurato e pertanto la buona sorte, la prosperità.
I punti cardine del pensiero di Lanza del Vasto sono invece il dogma trinitario e l’essenzialismo. Il primo viene esplorato in tutte le sue possibili implicazioni filosofiche oltre che teologiche, e posto alla base di una dialettica trinitaria che dovrebbe nelle intenzioni dell’autore superare in senso sia pratico sia teoretico la dialettica triadica hegeliana. Con essenzialismo Lanza del Vasto intende poi il ritorno all’essenziale, una sorta di “lavoro in levare” simile a quello dello scultore, volto a eliminare i falsi bisogni per giungere al cuore dell’essere umano con le sue necessità autentiche ineliminabili: necessità materiali ma soprattutto etiche, estetiche, spirituali e religiose. Dunque un altro tipo di benessere, che al pari del sarvodaya vinobiano è certo molto lontano dal possesso e dallo sfruttamento indiscriminato delle fonti di sostentamento e di piacere che sembra soggiacere al cosiddetto benessere inteso in senso consumistico.
L’ispirazione indubitabilmente cristiana dell’opera di Lanza del Vasto ci sembra si possa ricavare proprio dalla conclusione della sua biografia dedicata a Vinobâ. Per Vinôbâ o il nuovo pellegrinaggio si potrebbe in realtà parlare di una agiografia piuttosto che di una biografia. L’ispirazione agiografica non manca in Lanza del Vasto, e si ritrova talora congiunta a un certo estetismo forse più di stile che di contenuto, una sorta di francescanesimo estetizzante, una volontà non sempre limpida di martirio che ricorda, si parva licet componere magnis, altri europei alla scoperta dell’Oriente, per esempio il colonnello Thomas Edward Lawrence, altro personaggio la cui sensibilità estetico-religiosa non è sorprendentemente troppo dissimile da quella del discepolo occidentale del mahâtma.
Ma ecco il passo che vogliamo prendere in considerazione, posto a suggello della biografia di Vinobâ:

“A te parlo, amico lettore, a te da solo a solo; e soprattutto a te mio fratello cristiano.
Ma perché fai questa smorfia, fratello mio, e perché prendi il mio invito per una sfida?
La tua collera, fin’ora contenuta esplode e mi urli: voi che vi dite cristiano non siete andato alle Indie a portare la parola di Dio, né a predicare Cristo, ma ne ritornate per esaltare la religione indù tra i cristiani.
[…]
Rispondo: per testimoniare la nostra fedeltà, che cos’è meglio? Affermare che la nostra religione è l’unica buona o dimostrarlo denigrando quelle degli altri?
Oppure provare che vi crediamo, praticando e applicando, sobri di parole, i misteri della nostra fede? E poi ammirare nelle nostre religioni ciò che hanno di grande, di vero, di nobile e simile alla nostra.
Io non esalto affatto la religione indù, né la buddhica, le difendo piuttosto da giudizi menzogneri. Le barriere del pregiudizio e della ignoranza mi paiono pessimi baluardi per la fede.
[…]
La dottrina che predico e sostengo e da cui attendo un rinnovamento sociale e spirituale in Occidente come in Oriente, è la Dottrina Gandhiana che non può scontrarsi con la nostra fede religiosa dal momento che non è una nuova religione e nemmeno una dottrina religiosa, poiché sta su di un altro piano.
È una dottrina di riforma sociale e personale che può scontrarsi solo con altre dottrine di riforma sociale.
È una dottrina sociale conforme ai precetti della religione: di tutte le religioni e più particolarmente della nostra, cosa che non ci deve sorprendere, poiché essa è direttamente tratta dai precetti evangelici.”

Vorremmo confrontarlo con due altri testi, l’uno di ispirazione hindû (propriamente: smârta), l’altro di àmbito buddhista. Sono entrambi testi indiani antichi, di indole molto diversa, ma che rispecchiamo una comune concezione del mondo. Il primo può essere fatto risalire con molte incertezze al V sec. d.C., e fa parte di una importante opera che getta le basi di una delle più importanti scuole della filosofia indiana classica: le Gauöapâdîyakârikâ ascritte a Gauöapâda e commentate dallo (pseudo?)Šaükara. Il secondo fa parte di un editto su roccia attribuito al sovrano della dinastia Maurya Aðoka, che regnò tra il 268 e verosimilmente il 230 a.C.
Ecco i due testi:

«I dualisti, fermamente persuasi delle convinzioni generate dai propri principi fondamentali, si contraddicono reciprocamente: ma questo [punto di vista non-duale] non è in contraddizione con essi. [GK 3,17]
La visione che contempla il Sé come non-duale è corretta dal momento che è stata corroborata tanto dai trattati autorevoli quanto dal ragionamento: ogni altra visione è falsa, dal momento che risulta estranea a essa. E anche per questo la visione dei dualisti è falsa, perché si fonda su difetti come attaccamento, avversione e simili. Come? “I dualisti”, ossia i seguaci dei punti di vista di Kapila, di Kaãâda, del Buddha, dell’Arhat e simili, “persuasi delle convinzioni generate dai propri principi fondamentali”, delle norme che regolano l’attività intellettuale in base ai loro principi fondamentali, pensano: “Solo così si configura questa realtà suprema, non altrimenti”, e rimangono attaccati a questa convinzione, e contemplando un punto di vista in contrasto con il proprio prendono a odiarlo, caduti così in preda ad attaccamento e avversione, e solo a causa dei principi fondamentali della propria visione del mondo “si contraddicono reciprocamente”, vale a dire l’un con l’altro. Questo nostro punto di vista vedico, che corrisponde alla visione dell’unicità del Sé, non entra in contraddizione con questi avversari in reciproca contesa, per il fatto che non si presenta come differente da ogni cosa, al modo in cui non si può entrare in conflitto con le proprie mani, i propri piedi e simili. Pertanto esclusivamente la comprensione dell’unicità del Sé, per il fatto di non basarsi su difetti quali attaccamento, avversione e così via, costituisce la visione corretta: questo è il senso da veicolare.
La non-dualità è la realtà suprema, giacché la dualità è detta essere una scissione di essa. Per costoro in entrambi i casi c’è la dualità. Pertanto questa [visione] non confligge. [GK 3,18]
Si espone ora il motivo per cui “questo [punto di vista non-duale] non è in contraddizione con essi”. “La non-dualità è la realtà suprema, giacché”, per il fatto che, “la dualità”, l’eterogeneità, “è detta essere una scissione di essa”, ossia una scissione di tale non-dualità, un suo effettuabile (kârya): questo è il senso. Così afferma la rivelazione: “Uno solo invero senza un secondo”, “quello fece scaturire il fulgore”. E lo conferma il ragionamento. In assenza di vibrazione della propria mente, nello stato di incentramento simultaneo dell’attenzione (samâdhi), nell’obnubilamento e nel sonno profondo infatti [la dualità] viene meno. Per questo “la dualità è detta essere una scissione di essa” [ossia della non-dualità]. Ma “per costoro”, ossia per i dualisti, “in entrambi i casi”, sia dal punto di vista della realtà suprema che non dal punto di vista della realtà suprema, “c’è la dualità”, e solo lei. Se il punto di vista duale appartiene a costoro che sono soggetti all’errore, il nostro punto di vista non duale appartiene a quanti non sono soggetti all’errore. “Pertanto”, per questa ragione, il nostro punto di vista “non confligge” con costoro. Così afferma la rivelazione: “Indra grazie alle facoltà di illusione magica [s’aggira sotto molteplici aspetti]”, “non c’è tuttavia quel secondo”. Il caso è simile a quello di uno che, montando un elefante infuriato, non lo sprona contro un folle che sta a terra anche se questi gli dice: “Anch’io monto un elefante: sprona il tuo contro di me!”, per il fatto che costui non è animato da ostilità nei confronti dell’altro. E dunque, dal momento che secondo la realtà suprema il conoscitore del brahman non è altri che lo stesso Sé dei dualisti, “pertanto”, per questa ragione, il nostro punto di vista “non confligge” con costoro.
Ciò che è già pervenuto all’esistenza non nasce affatto, e neppure nasce ciò che non è ancora pervenuto all’esistenza. I duali[sti] disputanti invero proclamano così la non nascita. [GK 4,4]
Si espone ora che cosa mai venga proclamato in realtà da costoro che mediante argomentazioni opposte operano la negazione dei reciproci punti di vista. “Ciò che è già pervenuto all’esistenza”, ossia una cosa esistente, “non nasce affatto”, proprio per il fatto che è già esistente, come è il caso del Sé. Parlando così il sostenitore del[la nascita dell’effettuabile] non [pre]esistente nega il punto di vista del sâäkhya, secondo il quale ha luogo la nascita reale [dell’effettuabile preesistente]. “E neppure nasce ciò che non è ancora pervenuto all’esistenza”, ossia non esistente, proprio per il fatto che non è esistente, come è il caso di un corno di lepre. Parlando così il sostenitore del sâäkhya a sua volta nega la nascita reale [dell’effettuabile non preesistente] che costituisce il punto di vista del[la nascita dell’effettuabile] non [pre]esistente. “I duali”, ossia dualisti, “disputando”, sostenendo posizioni opposte, negando reciprocamente i due punti di vista relativi alla nascita del[l’effettuabile pre]esistente o non [pre]esistente, “invero proclamano”, mettono in luce, “così la non nascita”, vale a dire il non sorgere.
Noi approviamo la non nascita proclamata da costoro; non disputiamo con loro. Comprendete questa assenza di disputa. [GK 4,5]
Noi meramente “approviamo la non nascita proclamata da costoro”, dicendo: “così sia!”; “non disputiamo con loro”, aderendo a un punto di vista e al suo controcorrelato, come fanno quelli reciprocamente: questo è il senso implicito. Pertanto, o discepoli, “comprendete questa assenza di disputa”, questa visione della realtà assoluta esente da disputa che noi approviamo».

“Il re Piyadassi caro agli dèi rende onore a tutte le religioni, sia a quelle di asceti sia a quelle di laici, con liberalità e con varie forme di onore. Ma il re caro agli dèi non annette tanto valore alla liberalità o agli onori quanto alla esistenza di progresso essenziale in tutte le religioni. Il progresso essenziale ha varie forme; ma la sua radice è la moderazione nel parlare: vale a dire l’astenersi dall’esaltare la propria religione o dal biasimare le altre fuor di proposito; e biasimarle con delicatezza quando sia necessario. Perché si deve rispetto alle altre religioni, in ogni caso. Agendo così, si magnifica la propria religione e si giova alle altre; agendo diversamente si nuoce alla propria religione e non si giova alle altre. Chi infatti esalta la propria religione o biasima le altre, soltanto per devozione alla propria religione, per voler magnificare la propria religione, agendo così fa invece il magior danno alla propria religione. È bene che vi sia accordo, che gli uni conoscano e rispettino la pietà degli altri, che tutte le religioni si arricchiscano di dottrine e diano buoni insegnamenti.”

In un mondo che fa del fondamentalismo il proprio orrore l’invito a un attivo rispetto reciproco, che è certo più di una passiva tolleranza, sembra l’unica possibilità di sottrarsi alla catastrofe, spirituale prima che materiale.

Sulle orme di Lanza del Vasto, nell’esempio dell’Arca.
Una panoramica delle esperienze di vita comunitaria nonviolenta

Di Nanni Salio

Che cosa intendiamo per nonviolenza e per vita comunitaria nonviolenta? Le esperienze di cui parlerò sono sempre delle approssimazioni, più o meno riuscite, a un ideale stile di vita che intende tradurre nella quotidianità i principi della nonviolenza. Possiamo cominciare con l’individuare alcuni criteri che ci permettano innanzitutto di classificare le esperienze, nel tentativo di intravedere delle reali alternative in questo nostro mondo apparentemente invaso da fenomeni di violenza crescente e diffusa, nel quale talvolta si fa fatica a conservare la speranza di cui parlano tutti i grandi maestri, a cominciare proprio da Lanza del Vasto. E’ pertanto necessario accostarsi mediante delle approssimazioni agli esperimenti reali che ci permettono di imparare dai nostri errori.
. La prima considerazione riguarda la “dimensione di scala”. Per “dimensione di scala” si intende la modalità con la quale sono organizzate le relazioni tra le persone. Si va dalla dimensione puramente individuale a quella della famiglia e successivamente, dal micro al macro, si passa ad altre strutture sociali: famiglia allargata, comunità, villaggio (inteso in senso gandhiano), società, stato e infine società globale planetaria. Nel nostro mondo ricco e occidentale si è man mano diffusa una ideologia che privilegia a tal punto la dimensione individuale che la Margareth Tatcher è giunta a sostenere che non esiste la società, ma solo gli individui. Di fronte ad affermazioni di tale tenore, che tendono a cancellare quegli aspetti della vita umana che ad altri sembrano fondamentali, si rimane costernati e stupefatti e non ci si dovrebbe pertanto meravigliare delle conseguenze distruttive che si verificano quotidianamente. In un libro molto importante sull’economia gandhiana (in corso di traduzione e pubblicazione), l’autore, Romesh Diwan, mette a confronto la sua esperienza personale, e più in generale quella delle società non occidentali ancora organizzate secondo nuclei famigliari allargati, con la nostra condizione di crescente isolamento. Nella sua analisi, Diwan fa riferimento a un autore americano Philip Slater, poco noto in Italia nonostante il notevole successo di alcuni suoi lavori, e si richiama in particolare a uno dei suoi ultimi libri, “Un sogno rimandato” (Edizioni Pendragon, Bologna 2000), dove il sogno è quello di una società che voglia vivere secondo l’american way of life, ovvero secondo uno stile di vita, un modello, che ha prodotto e continua a produrre guasti enormi a partire proprio dalla distruzione della dimensione relazionale. Oggi c’è bisogno di comunità, e sono molti ad affermarlo, (Zygmunt Bauman, Voglia di comunità, Laterza, Bari 2001) sebbene altri considerino la proposta e la nascita di una dimensione comunitaria addirittura come un pericolo per il modello economico e sociale imperanti. Essi considerano il comunitarismo una sorta di variante del comunismo, non solo per l’evidente affinità lessicale. Perché c’è bisogno di comunità? Per ragioni relazionali ed ecologiche, per ristabilire un senso di sicurezza e per produrre significato nella nostra esistenza.
Per classificare le molteplici esperienze di vita comunitaria in corso è bene cominciare a distinguere tra le esperienze presenti in occidente (e più in generale nel mondo ricco) e quelle negli altri paesi (poveri, o impoveriti); nei quali sono ancora diffuse culture basate su modelli che noi chiamiamo tradizionali, utilizzando un termine che forse non è del tutto corretto. Esistono modelli diversi di comunità ai quali accennerò per far capire quali sono le approssimazioni possibili e i criteri che dovremmo seguire per stabilire in che misura questi esperimenti si avvicinano o meno a un modello ideale di comunità nonviolenta.
Alcune comunità si ispirano a principi anarchici. Qualcuno ha definito Gandhi l’”anarchico gentile”. Il termine anarchia non dovrebbe essere usato nel senso negativo che gli viene spesso attribuito. Gandhi immaginava che fosse possibile costruire una rete mondiale, oceanica, di villaggi, di piccole comunità che permettesse di superare l’idea di stato. Secondo questa concezione, il villaggio era sinonimo di piccola scala, quella nella quale è possibile costruire sia relazioni più profonde e durature, sia un modello di economia e di vita nonviolento, nella interconnessione di una gigantesca rete su scala mondiale che permetta di stabilire relazioni d interdipendenza senza cadere nella dipendenza. La dimensione di scala era quindi molto ben presente nella concezione sociale di Gandhi e alcune comunità anarchiche, in occidente, si richiamano in maniera talvolta implicita a questo modello, pur con qualche approssimazione. Ne esistono un po’ ovunque, anche in Italia. Alcuni studi hanno preso in considerazione soprattutto la comunità degli “Elfi del gran burrone”. Sono comunità che introducono alcuni elementi caratteristici di una economia nonviolenta, in particolare quello dell’autosufficienza, del lavoro senza condizioni di sfruttamento, senza “padroni”, un punto centrale delle Comunità dell’Arca promosse da Lanza del Vasto. Un limite di queste comunità è che molto spesso in esse non c’è sufficiente attenzione ad altre dimensioni considerate solitamente indispensabili in una prospettiva nonviolenta.
Una seconda dimensione, o caratteristica, con la quale classificare le comunità è quella di natura religiosa, ben presente nel caso delle comunità dell’Arca così come in molte altre. Alcune esperienze assumono una dimensione religiosa new age. Ben nota è la comunità di Damanhur, anch’essa oggetto di analisi sociologiche, che pur praticando alcuni degli aspetti che caratterizzano le forme di economia e di relazione nonviolenta presenta a nostro parere forti limiti sul piano relazionale.
Tutte le principali religioni hanno esaltato e praticato forme di vita comunitaria. Nell’islam c’è l’umma, la comunità per eccellenza. In questo periodo, in cui molti vedono l’islam secondo un immaginario negativo, è importante ricordare e far conoscere questa dimensione comunitaria. Nel buddhismo c’è la sangha, la comunità, vista come il luogo per eccellenza in cui rafforzare il percorso di costruzione della propria forza interiore. E’ in essa che si trova rifugio nei momenti difficili della vita. Nell’India c’è la tradizione degli ashram che è stata poi orientata da Gandhi verso veri e propri modelli di economia nonviolenta. Nel cristianesimo potrebbe sembrare a prima vista che questa tradizione si sia andata perdendo in seguito al prevalere di un modello di economia capitalista e allo smembramento della società, sempre più individualista. Oltre alle comunità d’ispirazione cristiana e nonviolenta come l’Arca, è da ricordare la tradizione delle comunità monastiche e degli ordini religiosi, che negli ultimi tempi si stanno orientando sempre più verso coerenti scelte di vita nonviolenta, spesso in controtendenza rispetto alla cultura religiosa dominante.
Ci sono poi comunità di ispirazione più laica, che non si richiamano esplicitamente a concezioni religiose o politiche, senza tuttavia escluderle a livello personale. Un possibile esempio è quello dei nuclei familiari che si sono costituiti in forme che approssimano l’idea di comunità. Una delle esperienze che bisogna prendere seriamente in considerazione e conoscere meglio è quella dei “bilanci di giustizia”, che ha portato nuclei di famiglie a vivere in una dimensione che si può definire di tipo “comunitario lasco”. Quindi esse non vivono necessariamente nello stesso ambiente, con rapporti quotidiani molto stretti, ma mantengono comunque dimensioni di tipo comunitario che comportano il ritrovarsi, l’analizzare insieme i problemi che si affrontano, in particolare dentro la prospettiva che questa campagna di bilanci di giustizia propone: la riduzione dei consumi e la ricerca di uno stile di vita equo e sostenibile.
Quali sono le attività che le comunità normalmente svolgono e quali alcuni dei risultati più interessanti? Li elenco in modo molto sommario, ma importante per avere un quadro che ci permetta di capire che questa strada è realmente percorribile. C’è innanzitutto la ricerca dell’autosufficienza, che dovrebbe essere realizzata su due piani: alimentare ed energetico, entrambi fondamentali per ridurre l’impronta ecologica e riportarla, a livello individuale e collettivo, dentro i vincoli e i limiti della sostenibilità ambientale. Anche quando non si parlava ancora di impronta ecologica, tutto ciò era stato colto con grande lungimiranza da coloro che hanno avviato le prime comunità gandhiane sia in India che in occidente. E’ un punto qualificante, fondamentale per poter parlare di comunità nonviolente.
Il secondo aspetto altrettanto importante, più difficile da valutare, ma che si può cogliere quando si partecipa direttamente a una di queste esperienze, è la qualità delle relazioni interpersonali, che Romesh Diwan chiama “benessere relazionale”. Questa è una delle caratteristiche più importanti per poter sostenere che una comunità sta vivendo in una prospettiva nonviolenta. Non so se esistano dei parametri precisi quantitativi, però quando si entra in una di queste comunità ci si accorge che c’è un clima diverso, ci si accorge che tutto ciò che circonda le persone avviene con ritmi e con una qualità differente da quelli che caratterizzano la vita all’esterno. La qualità relazionale ha a che fare con la qualità della vita, è un aspetto fondamentale che richiede un’attenzione e una cura particolari per rendere la qualità della vita decisamente più avanzata rispetto alla media degli ambienti circostanti.
L’ultimo aspetto che si coglie in molte di queste esperienze di comunità che si richiamano alla nonviolenza è la semplicità volontaria, che comprende sia condizioni estetiche sia materiali ed è stata teorizzata e praticata da coloro che ci hanno preceduto in questa sperimentazione.
Per tentare di tradurre in pratica questi ideali, la gamma di attività possibili è diversificata: da quella, già ricordata, dell’agricoltura, all’artigianato, all’accoglienza (nei confronti di chi vive situazioni di disagio), alla cooperazione internazionale e ad altro ancora. Abbiamo dunque molte comunità in Italia che vale la pena di conoscere, e farò un breve cenno a due esperienze fra le tante. La prima è un’iniziativa che, nella sua parzialità, come tutte le iniziative, si propone di introdurre alla conoscenza della nonviolenza a partire da esperienze di vita reale, quotidiana, mediante i “campi estivi” promossi dal MIR-MN. Sebbene questi campi durino soltanto una settimana, essi permettono di solito di accostarsi in modo significativo ad esperienze di vita comunitaria che altri già conducono su scale assai diverse, da quella molto ridotta di una singola famiglia, alla famiglia allargata, alla famiglia che accoglie. E’ un modo interessante e intelligente per conoscere e sperimentare direttamente.
Una comunità che merita segnalare per la bella e articolata esperienza che sta conducendo è la “comunità di Sestu” (dal nome di una località nei pressi di Cagliari): uno splendido esempio di semplicità volontaria, accoglienza, autosufficienza e attenzione alla vita locale.
Per avere una visione d’insieme più articolata e precisa manca una sorta di mappa ragionata che offra un quadro delle possibilità già in atto e ci aiuti a scoprire il gran numero di persone che si sono incamminate lungo la strada della vita comunitaria nonviolenta. Ognuna di queste esperienze è un segnale di speranza e un’ancora di salvezza in questi tempi quanto mai travagliati.

L’esperienza di un asino,
portatore dei valori dell’Arca

A cura di Graziella e Giovanni Ricchiardi*

“Ah ! Burìc di n’asu !” : mai sentito ? io da ragazzo sì ; in famiglia, talvolta rivolto a me. Allora forse non gradivo tanto, ma ora dopo tanti anni in campagna, accanto alle mucche e ai cavalli, trovo che la figura dell’asino non sia cosi’ male.
L’asino ha poche esigenze, aiuta con la sua umile fatica, dà compagnia senza mancare di personalità e dignità. Mi piace ! Sono un asino come gli altri: mi fa paura “ il banco dell’asino”, vorrei essere più’ intelligente, più pronto, parlar bene. Però al pensare a ciò che combinano, sotto l’etichetta della scienza molti professori chiarissimi, son lieto di esser asino !
Quest’asino sono proprio io, così come sono, diverso dagli altri, unico: devo cercare con fiducia il mio posto.
Così, nella nostra mediocrità, io e la mia asinella, prima nel calore delle nostre famiglie, poi insieme, ci siamo messi alla ricerca di quel che ci sembrava bene per noi a per gli altri. Azione Cattolica, Gesù, Gandhi, Don Milani, Sindacato, Gruppi per il terzo mondo, tentativi di comunità. Un cammino, una strada, un’avventura con buona volontà ma tanta superficialità e sprovvedutezza. Ogni esperienza confluiva nella successiva.
In Lanza Del Vasto, in Shantidas, abbiamo trovato un cammino per scoprire intorno a noi il Creato, ringraziare di farne parte e cercare il nostro posto.
Tutti dicono di lavorare ma: la speculazione, il commercio, la politica, l’esercito……..ecc..ecc.., non sono vero lavoro.
Possono esserlo invece i lavori manuali e quelli di servizio agli altri (nell’ambito educativo, sanitario, ecc.).
Poi spesso i veri lavori sono segnati dal lucro, dalla rivalità, dalla schiavitù. I salariati sono schivi perché il frutto e la direzione del lavoro sono di altri ed essi non lavorano per amore del prossimo ne per amore del lavoro, ma per il salario.
Inoltre i lavori di servizio sono nobili se liberi e se il guadagno resta un mezzo di sussistenza per darsi al servizio. Lo stesso per i lavori artigianali.
In realtà tutti rifiutano di “lavorare col sudore della fronte” (il comandamento più antico) e costringono gli altri a lavorare al loro posto. Anche perché lo spirito di lucro e la ricerca del piacere moltiplicano i desideri e i bisogni in modo sproporzionato rispetto alla capacità delle mani di soddisfarli onestamente.
Da tutto ciò viene il dramma delle ingiustizie: miserie, abusi, schiavitù, disordini; come la meccanizzazione e i suoi aspetti moderni ancora più pericolosi: l’elettronica e l’informatica (direbbero oggi Gandhi e Lanza Del Vasto); di qui lo sfruttamento regolare dei poveri, dei deboli, dei vinti, le rivolte, le repressioni, la guerra.
Il percorso alternativo è il lavoro manuale volontario, senza lucro e scaltrezza in spirito di dono, di servizio, di sacrificio (fare cosa sacra). E’ detto : “Dio diede all’uomo un giardino perché vi operasse”. Lavoro agricolo senza sfruttamento di uomini, nè animali, nè cose. Operare consapevoli della magnificenza sconosciuta della natura ricca di prodotti spontanei e, se necessario, proporre con speranza il seme sapendo che il vero lavoro lo fa la natura; accompagnare la crescita e la maturazione, raccogliere, rendere grazie e mangiare. Quello che non va in questo senso, provoca crudeltà, bruttezza, costrizione e va eliminato. Così il lavoro salariato. Così lo sfruttamento della natura su cui hanno eguali diritti gli uomini tutti, delle presenti e future generazioni.
Bisogna che il lavoro sia vita: armonizzi, componga, innalzi ; sia purificazione, santificazione, creazione comune, vada nel senso della volontà di Dio.
Ma il lavoro va facilitato e completato con la povertà volontaria. Impossibile possedere ricchezze senza commettere ingiustizie nel procurarsele, nel difenderle, nel farle fruttare ; senza servirle. Impossibile bramarle senza calpestare il prossimo. La strada verso il distacco e la carità è la povertà. Bisogna identificare i veri bisogni e soddisfarli attraverso mezzi semplici e giusti. Ecco l’artigianato per il cibo, il vestito, l’utensile e il tetto, in bellezza e pulizia. Limitando i bisogni sarà facile alla mano soddisfarli e daremo spazio alla contemplazione, allo studio, alla preghiera, alla festa, al lavoro interiore per la conoscenza il possesso e il dono di se. Si tratta della conversione: nel modo di pensare e in quello di agire, da ricercare e riprendere un po’ ogni giorno…
Questa parte d’insegnamento (che unita alle altre trova una trattazione più completa e degna nei libri e nella vita di Shantidas) ci parve La Buona Novella tradotta in pratica. Si adattava alla nostra strada, esprimeva solidamente e traduceva in vita ciò che come asinelli non avremmo potuto pensare ; era una proposta giusta, coerente e completa di vita. Partecipammo agli incontri del gruppo di Amici dell’Arca di Torino e a un campo estivo animato da Shantidas.
Trascorremmo qualche periodo all’Arca francese.
Intanto era maturato un gruppo di volontari per costituire una comunità. Ci furono incontri a Gainazzo sull’appennino in provincia di Modena. Vi parteciparono Shantidas, Pierre Parodi (suo successore) ed altri compagni dell’Arca francese. Avendo gli aderenti esperienze diverse si pensava alla comunità in differenti modi. Shantidas ci esortò a basarci sulla regola dell’Arca, il testo dei voti. Così avvenne. Insieme ad alcuni dei partecipanti ci trovammo a far parte di una nuova, difficile, straordinaria, ricca e forte avventura, temprata da prove imprevedibili (fra cui lo spostamento in Puglia a Monte Sant’Elia), benedetta da segni inconsueti, vissuta con intensità, dedizione e forte desiderio di fedeltà alla regola assunta. Anno dopo anno avevamo agricoltura con allevamento, orto, artigianati, ospitalità, campi formativi, accoglienza e presenza nella vita locale.
Molti erano gli amici vicini e lontani a sostenerci; alcuni fedelissimi del movimento dell’Arca ci davano molto loro tempo, esperienza e capacità. Sentivano la comunità attuale e significativa, la sentivano formativa come scuola di nonviolenza e aderivano al programma del suo maestro ispiratore: Lanza Del Vasto. Passarono generazioni di obiettori di coscienza, di obiettori alle spese militari, si tenne il primo campo della difesa popolare nonviolenta. Fra gli impegnati di Monte Sant’Elia ci furono molte presenze brevi, alcune di lunghezza significative, poche di lungo tempo. Il luogo e l’impegno erano selettivi. Li ricordiamo tutti con calore ed ammirazione. Ognuno fu importante. Con particolare tenerezza pensiamo Giovanni e Pasqualina Tammaro: siamo vissuti fianco a fianco per tutta la durata della comunità : tredici anni intensi e positivi.
Per una comunità dell’Arca, una comunità fedele, tante sono le necessarie circostanze e componenti che, quando si verificano, avviene come una sorta di miracolo, una Grazia. Talvolta è concessa: la comunità nasce, vive e fruttifica, poi muore, è naturale ! Ma se frutti e semi ci son stati non è veramente morta ! Si generano nuove vite: ce lo auguriamo !
Poi la famiglia di asinelli ha passato un tempo all’Arca francese di Nogaret e de La Borie; questi luoghi parlano del fondatore. Siamo lieti dell’esperienza, speriamo di avervi partecipato con dedizione e buona volontà.
E ultimamente, nel verde di un bosco dell’alta Langa piemontese, cerchiamo di ricomporre pietra su pietra con la nostra esperienza e quella degli animali, il pulsare della vita di una cascina abbandonata.
In fine permetteteci di riproporre :
la gratuità: il volontariato è vero se è dono ;
l’utilizzo di mezzi semplici, l’autonomia dal consumismo economico e politico per essere alternativi ;
verità, carità e amore per migliorare le relazioni fra persone più che ricorrere a specialisti ;
la presenza del Dio di verità che gli uomini diversi chiamano un diversi nomi ma che è l’uno, l’unico, il medesimo, che è Colui che è, che in tutto ciò che è e nell’unione di quelli che si uniscono. Che è nell’altezza e nell’abisso, nell’infinito dei cieli e nell’ombra del cuore come un piccolo seme nella ricerca dello sviluppo sostenibile.

*Cascina Scherpo, S. Benedetto Belbo CN