I care Costituzione

– La Costituzione e i giovani [.pdf 2.2 Mb]
La Costituzione italiana: come è percepita e vissuta
tra gli studenti delle scuole “secondarie” del paese.
Una indagine nazionale sulla conoscenza e
sulla adesione ai principi e valori enunciati nella Carta Costituzionale

– La funzione del Parlamento [.pdf 1.1 Mb]
La riconsiderazione della funzione parlamentare quale strada obbligata per puntellare la traballante democrazia italiana

– L’Amministrazione giudiziaria
Intervento del magistrato dott. Roberto Mazzoncini in occasione dell’incontro-dibattito organizzato a Brescia il 6 giugno 2011

Il ruolo del Capo dello Stato

Intervento del prof. Antonio D’Andrea (la cui trascrizione è stata rivista dal relatore) in occasione dell’incontro-dibattito organizzato a Brescia il 6 giugno 2011 presso il Museo delle Scienze naturali da Libertà e Giustizia e da Movimento Nonviolento, con il Patrocinio del Comune di Brescia, sul tema

Attentato alla Costituzione? Quali garanzie per i cittadini? Quali i poteri del Presidente della Repubblica a garanzia delle istituzioni repubblicane?

Cercherò di svolgere alcune considerazioni a ruota libera sul ruolo del Capo dello Stato nel nostro ordinamento partendo da questioni prettamente teoriche e nondimeno imprescindibili per inquadrare, inserendolo in una dimensione più ampia, il problema specifico di ciò che il Presidente della Repubblica può o potrebbe fare rispetto alla nota situazione di generale deterioramento, diciamo così, del quadro politico nazionale.
Innanzitutto cominciamo con il ricordare che proprio il Capo dello Stato può, secondo il dettato costituzionale vigente, essere chiamato a rispondere di attentato alla Costituzione e di alto tradimento dinanzi alla Corte costituzionale (nella sua veste di giudice penale e dunque in composizione integrata), se messo in stato di accusa da parte del Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta. Ipotesi, come si dice, di scuola! Essa serve solo a ricordare come la nota affermata irresponsabilità giuridica del Presidente trova un limite specificatamente individuato dalla stessa normativa costituzionale. Egualmente è noto come la normativa penale prenda in considerazione, punendole, specifiche condotte delittuose che attentino nei confronti degli organi costituzionali e degli stessi simboli che rappresentano il nostro Stato democratico. Bisogna dunque intendersi quando si parla di “attentato alla Costituzione” e ancor più quando ci si chiede cosa è possibile fare allorché si ritenga realizzato il “punto di rottura” dell’ordinamento costituzionale a causa di fatti e atti riconducibili direttamente alle stesse autorità dello Stato. A me pare utile rammentare come la “rottura costituzionale” non sia , da un punto di vista strettamente giuridico, evento accertabile in modo inconfutabile e rituale al di fuori di quanto già previsto dalle norme costituzionali vigenti attraverso l’attivazione del solo giudice costituzionale che, a parte quanto già rammentato a proposito del giudizio penale nei confronti del Capo dello Stato, potrà annullare le disposizioni legislative contrastanti con i precetti costituzionali e risolvere i conflitti di attribuzioni tra gli organi di vertice dello Stato, spingendosi sino a rimuovere gli atti che costituiscono un’ invasione nel campo delle competenze altrui. In ciò dovrebbe configurarsi il “ripristino” del dettato costituzionale vigente.
Un’altra considerazione nota ma da richiamare in premessa è che nell’ordinamento italiano nessuno può far valere direttamente dinanzi alla stessa Corte costituzionale la violazione di un precetto costituzionale neppure quando questo attribuisce un diritto fondamentale che viene in concreto disatteso dalla stessa autorità pubblica.
Tuttavia, nonostante queste inevitabili precisazioni, ragionare intorno al ruolo del Capo dello Stato, ai suoi poteri, alla sua posizione costituzionale e alle sue molteplici responsabilità istituzionali è diventato inevitabile in un tempo nel quale pare davvero realizzarsi una certa palpabile tensione intorno al dettato costituzionale vigente del quale egli è, insieme alla Corte costituzionale, uno dei supremi garanti. Il discorso che mi accingo a sviluppare alluderà, come inevitabile, alla figura dell’attuale Presidente della Repubblica, il Presidente Giorgio Napolitano e al suo modo di interpretare, talvolta anche precisando e accentuando le prassi precedenti, il compito di Capo dello Stato.
Dobbiamo però intenderci su ciò che è chiamato a fare questo organo monocratico nel sistema costituzionale trascendendo, almeno inizialmente, dallo specifico contesto odierno. Da ciò credo che possano scaturire considerazioni meno emotive e più appaganti, almeno dal mio punto di vista, in grado di suggerire risposte più calibrate che non soddisfano solo e prevalentemente le esigenze evidenziate dal “caso concreto”.
Dico questo perché, ad esempio, non c’è dubbio che, se noi guardiamo in astratto agli articoli della Costituzione, il Presidente della Repubblica ha sempre la possibilità di richiedere una deliberazione parlamentare senza incontrare limiti espressi rispetto alle ragioni che lo inducono, almeno in prima battuta, a non promulgare una certa delibera legislativa. Anziché promulgare la legge, il Presidente della Repubblica può pertanto rinviarla alle Camere, e solo di fronte alla seconda approvazione da parte degli organi parlamentari, stando alla lettera della Costituzione, sarebbe comunque tenuto alla promulgazione. Ne discende che, in base al dettato costituzionale, il Presidente può spingersi sino a chiedere al Parlamento di riconsiderare la delibera di legge anche solo per semplici motivi di opportunità; in qualità di Capo dello Stato, egli potrebbe sempre affermare che una certa legge, in un determinato momento, è da ritenersi non fruttuosa per il Paese per svariate possibili ragioni: per il suo impatto con l’ordinamento nel suo insieme, ad esempio, oppure perché risolve in modo non convincente, almeno dal suo privilegiato punto di vista, un dato problema economico-sociale. In definitiva, stando alla lettera della Costituzione, non parrebbero esserci limiti alle considerazioni che possono motivare il rinvio presidenziale. Noi potremmo pertanto giudicare discutibile o insulsa l’inerzia del Capo dello Stato, quando lo stesso abbia omesso di rinviare una legge, oppure, viceversa, immotivato il suo interventismo, quando abbia disposto il rinvio attingendo appieno a questo potere, il cui esercizio – come si è detto – sembrerebbe sostanzialmente libero ed in grado di stimolare persino un supplemento di riflessione politica da parte degli organi parlamentari.
In ogni caso è pacifico che il Capo dello Stato non entra a far parte a tutti gli effetti del circuito politico. Di esso fanno parte, nel nostro ordinamento, il Parlamento e il Governo e, ad essere precisi, prima di tutti il corpo elettorale. È proprio il corpo elettorale che effettivamente innesca il circuito politico, eleggendo i membri delle Camere; a sua volta, il Parlamento è l’organo principale nella formazione e nella individuazione della maggioranza che poi consente la nascita e la permanenza in carica del Governo. Da questo “triangolo politico” (corpo elettorale, Parlamento, Governo) è escluso il Presidente della Repubblica. È pur vero che questi esercita un ruolo di primaria importanza sia con riferimento alla formazione del Governo sia con riguardo all’esercizio delle relative attribuzioni, dovendo provvedere alla formale nomina del Presidente del Consiglio e dei Ministri nonché all’emanazione di una serie di atti che servono a rendere possibile l’esercizio dei poteri costituzionali dell’Esecutivo. Ma a questo suo potere formale non corrisponde necessariamente una scelta discrezionale, perché il Governo, per entrare nel pieno possesso della carica, ha in ogni caso bisogno, al di là della nomina del Presidente della Repubblica, anche del voto di fiducia dei due rami del Parlamento. Si tratta dunque di una nomina condizionata dagli eventi politici. Considerazioni analoghe si possono fare in relazione al potere di scioglimento delle Camere, che consente al Presidente della Repubblica di incidere sulla sopravvivenza stessa degli organi parlamentari, salvo il limite del cosiddetto semestre bianco, cioè gli ultimi sei mesi del mandato presidenziale, in cui il Presidente non può disporre lo scioglimento, poiché vi osta un esplicito divieto costituzionale fondato sul presupposto che egli potrebbe agire allo scopo di agevolare una sua possibile rielezione, giovandosi di un Parlamento diversamente composto e magari più favorevole di quello sciolto a rinnovare il mandato presidenziale. Al di là di questa limitazione temporale, il potere di scioglimento anticipato delle Camere è un potere che, stando al dettato costituzionale, parrebbe non incontrare limiti in ordine alla tipologia di situazioni nelle quali il Capo dello Stato può attivarne l’esercizio. Nondimeno, affinché questo potere non finisca per riempirsi di contenuto politico, l’atto di scioglimento anticipato delle Camere presuppone sempre che ricorrano determinate condizioni, ossia, in definitiva, che le Camere non siano capaci di esprimere una maggioranza parlamentare in grado di sostenere il Governo e, ancor prima, che il Presidente del Consiglio in carica apponga la controfirma all’atto presidenziale.
È dunque pacifico che, nell’esercizio di queste attribuzioni, il Presidente della Repubblica deve astenersi dall’assumere decisioni di indirizzo politico: fuoriesce dalla portata decisionale del Capo dello Stato la possibilità di far nascere o far morire un certo Governo, così come quella di porre fine a una certa maggioranza parlamentare. Non a caso, quando si parla del Presidente della Repubblica, si evidenzia la sua natura di organo di garanzia, contrapponendola a quella degli organi costituzionali che, come il Parlamento e il Governo, esprimono un preciso e riconoscibile indirizzo politico. Il Presidente è definito, del resto, come il rappresentante dell’unità nazionale, per sottolineare che il Capo dello Stato incarna simbolicamente quell’unità dell’ordinamento e della società civile che prescinde da ogni appartenenza, non solo territoriale, ma anche politica.
Insomma, Il Presidente della Repubblica invera un potere di garanzia, ma non è l’unico. Nell’ordinamento ci sono almeno altri due poteri aventi natura di garanzia che meritano di essere ricordati, il primo dei quali, come detto, è proprio la Corte Costituzionale, giudice speciale dotato di competenze molto rilevanti che arrivano sino all’annullamento delle deliberazioni legislative, ossia alla possibile neutralizzazione delle scelte della maggioranza parlamentare. Ciò non significa che la Corte possa affermare una propria visione politica, magari opposta a quella espressa dalla maggioranza, ma soltanto che ad essa è attribuito un potere di garanzia a tutela della Costituzione. Come è ovvio, l’impatto della sentenza di annullamento pronunciata dalla Corte è inevitabilmente anche di tipo politico, ma il potere da essa esercitato è un potere giuridico, che si basa su una semplice – e persino elementare – considerazione e cioè che nel sistema delle fonti la Costituzione è legge fondamentale, ossia è legge super-primaria e, in quanto tale, non passibile d’essere disattesa da una semplice legge ordinaria.
Un altro potere di garanzia è rappresentato dalla Magistratura, in particolare quella ordinaria, concepita dalla Costituzione come un potere diffuso, estraneo per definizione all’esercizio di un ruolo politico, anche se tutti possono facilmente comprendere che alcune iniziative giudiziarie o alcune sentenze finiscono per avere ripercussioni, anche significative, nella vita politica del Paese.
Il Presidente della Repubblica è dunque sottratto al circuito politico che coinvolge il Governo e il Parlamento ed è invece inserito in quello che potremmo definire il circuito di garanzia, insieme ai due poteri poc’anzi citati.
Chiarito il quadro d’insieme, si può ora cercare di dare risposta ad alcuni interrogativi più specifici. Quali sono i rapporti che intercorrono tra il Presidente della Repubblica, che è organo di garanzia, e il Parlamento e il Governo, che sono invece organi dotati di funzioni di indirizzo politico? Perché la Costituzione talvolta innesta il potere di garanzia del Presidente della Repubblica all’interno di procedimenti pienamente riconducibili al circuito politico? In che modo il Presidente della Repubblica può influenzare l’attività degli organi costituzionali di indirizzo politico? E in che modo il suo ruolo può incidere sugli altri poteri di garanzia, ossia sulla Corte costituzionale e sulla Magistratura?
Per rispondere a queste domande, si deve anzitutto avere riguardo al fatto che il Capo dello Stato, nella organizzazione costituzionale, è concepito per interagire con tutti gli altri organi, sia quelli di indirizzo politico, sia quelli di garanzia. Abbiamo già visto, con riferimento al Governo, che, senza una nomina formale del Presidente della Repubblica, la genesi stessa dell’Esecutivo non potrebbe avere luogo. Ma, come si è precisato, l’atto presidenziale di nomina finisce per essere completamente condizionato, quanto alla scelta che vi è sottesa, dagli indirizzi politici che altrove vengono espressi. Può anche darsi che, in taluni casi, quando difetti una maggioranza parlamentare immediatamente riconoscibile, il Presidente della Repubblica sia chiamato a svolgere un ruolo più attivo, cercando di individuare, insieme ai soggetti politici, una maggioranza parlamentare capace di far nascere il Governo. Banalizzando, può dirsi che, se il risultato elettorale è chiaro e pacifico, nel senso che le elezioni politiche hanno avuto un esito netto a favore di una certa compagine ministeriale, il Presidente della Repubblica non potrà che prendere atto della presenza di una maggioranza e, sia pure in seguito alle consuete consultazioni, conferire l’incarico al leader della coalizione vincitrice e quindi nominare sia il Presidente del Consiglio sia i ministri. Naturalmente, se quella maggioranza parlamentare si spaccasse, nella fase genetica o nelle fasi successive, il ruolo del Presidente della Repubblica tornerebbe fatalmente ad espandersi, non perché questi sia legittimato a far nascere un “Governo del Presidente”, ma perché gli compete sempre verificare se esistono le condizioni necessarie a determinare la nascita di una maggioranza diversa, dotata di equilibri interni che consentano di individuare la personalità capace di guidare il Governo.
Considerazioni simili si possono svolgere con riferimento a quell’attività del Capo dello Stato che consiste nell’emanare gli atti normativi di competenza del Governo, quali sono, a livello di fonti primarie, i decreti-legge e i decreti delegati. L’attività di emanazione, perlomeno dal mio punto di vista, non consente al Capo dello Stato di formulare valutazioni discrezionali sui contenuti dell’atto da emanare, che è invece pienamente riconducibile al circuito politico. È pur vero, per limitarci a qualche osservazione relativa alla sempre delicata decretazione d’urgenza, che il Governo non può adottare liberamente tali atti decreti, ma solo per far fronte a casi straordinari di necessità e d’urgenza, motivo per il quale il decreto entra subito in vigore, il giorno della pubblicazione o quello successivo, con la forza attiva e passiva della legge. Il Presidente della Repubblica potrebbe assumersi la responsabilità di valutare in senso negativo la sussistenza dei presupposti di costituzionalità di un decreto legge? Se anche si risponde in modo positivo, come molti costituzionalisti ritengono si debba fare, dubito, tuttavia, che il Presidente possa spingersi, in assenza di un potere espressamente riconosciuto dalle disposizioni costituzionali, sino a dire: “no, questo è un atto che non emano perché lo ritengo sprovvisto dei presupposti” senza motivare in modo molto circostanziato le ragioni del suo rifiuto e in ogni caso senza potersi spingere sino a negare l’emanazione di tale atto a fronte della ribadita volontà dell’Esecutivo di procedere in quel senso. Un decreto-legge assunto senza i presupposti resta infatti incostituzionale anche qualora fosse convertito in legge e, nel nostro ordinamento giuridico, l’organo preposto alla valutazione dell’incostituzionalità dell’atto non è il Capo dello Stato ma è la Corte costituzionale, che può, qualora attivata, trasferire il vizio di costituzionalità dal decreto-legge alla successiva legge di conversione. Sicché il controllo sull’operato del Governo nella decretazione d’urgenza può benissimo scattare in un momento successivo, ad opera di un organo diverso dal Presidente della Repubblica.
Invece, con riferimento all’attività di promulgazione delle leggi e richiamando le annotazioni già svolte all’inizio, non vi è dubbio che al Capo dello Stato sia attribuito in questo ambito un potere di valutazione che, almeno dal mio punto di vista, è ampio. Il Presidente della Repubblica, facendo valere la sua posizione di organo al di sopra della contesa politica ordinaria, può “bloccare” la legge, anche se per una sola volta, rinviandola alle Camere e trovandosi così nelle condizioni di poter instaurare una sorta di motivato“braccio di ferro” con il Parlamento.
Spesso invece il Capo dello Stato finisce per essere condizionato dalle circostanze – e non parlo solo dell’attuale Presidente – finendo per interloquire direttamente con gli uffici dell’organo parlamentare e persino del Governo, che, il più delle volte, è promotore dei disegni di legge più significativi. In questo modo il Presidente instaura una relazione innaturale, spesso descritta nei termini di moral suasion, che rischia di opacizzare la limpidezza del suo ruolo di rappresentante dell’unità nazionale, un ruolo che egli è chiamato a interpretare pienamente, arricchendolo, di volta in volta, con i caratteri della sua personalità.
Il Presidente della Repubblica – e qui chiamo in causa, criticamente, la specificità della presidenza Napolitano – ritiene che sia possibile esercitare il potere di rinvio solo in caso di manifesta incostituzionalità della disciplina normativa approvata dalle Camere. In altre parole, il Presidente in carica, nel solco di una prassi introdotta dal suo predecessore, ha notevolmente alimentato una sorta di “giurisprudenza” restrittiva, suggerita da una concezione riduttiva del suo ruolo di “garanzia attiva” che lascia il posto piuttosto ad una “garanzia persuasiva”. Il che significa, per restare in tema, che un semplice dubbio di costituzionalità relativo alla legge da promulgare non potrebbe giustificare l’attivazione del potere di rinvio che, viceversa, scaturirebbe soltanto a fronte dell’incostituzionalità manifesta della legge. Per ottenere questo risultato molte volte gli uffici della Presidenza lavorano, informalmente ma incessantemente, così da “scongiurare” almeno la manifesta incostituzionalità della legge (va da sé fortemente voluta dalla maggioranza governativa); così facendo si preclude però al Capo dello Stato l’esercizio del suo potere di rinvio rispetto ad una legge in precedenza “trattata” sia pure allo scopo di diminuirne la potenziale contrarietà alla Costituzione. Il desiderato effetto che si persegue in tal discutibile modo è quello di non contrapporre, almeno formalmente, il Presidente agli organi del circuito politico. Il che non è neppure sempre garantito!
Un’altra considerazione che non possiamo omettere è che il Presidente della Repubblica, nell’esercizio del potere di rinvio, non deve mai preoccuparsi di anticipare il giudizio della Corte Costituzionale. Ad esso compete infatti un intervento di natura meno tecnica, perché destinato a inserirsi in una fase precisa della decisione politica. Nel caso della legge, il Presidente interviene subito dopo la delibera conforme delle due Camere, potendo rinviare per ragioni, come detto, varie il provvedimento approvato, mentre la Corte costituzionale può intervenire in un momento successivo, risolvendo esclusivamente gli incidenti di costituzionalità che sono sollevati rispetto a leggi non soltanto approvate, ma anche entrate in vigore e quindi applicate. E una cosa è ragionare, come fa il Presidente della Repubblica, sul rinvio di una legge che è tale solo sulla carta, perché non ha ancora trovato concreta applicazione (in realtà non è ancora legge in senso proprio), altra cosa è intervenire, come invece può fare la Corte costituzionale, sul diritto vivente e sul dubbio di costituzionalità che sorge nel corso di una controversia giudiziale. Sicché, è proprio quando il Presidente della Repubblica si spinge a richiedere al Parlamento di considerare di nuovo la delibera legislativa in ordine alle perplessità riscontrate (dunque non necessariamente censure di costituzionalità), che può avere luogo una sua motivata e controllata (dalle norme costituzionali) intromissione nel circuito politico.
Chiarito questo, ho l’impressione che l’attuale Presidente della Repubblica abbia messo un piede (talvolta anche due) all’interno del circuito politico; e ciò è accaduto non solo nei rapporti con il Parlamento, ma sopratutto in quelli con il Governo. Ne è emerso un dato che, seppure determinato dalla particolare contingenza politico-istituzionale, resta, a mio avviso, preoccupante, quello dello sconfinamento dell’azione del Capo dello Stato dal perimetro costituzionale del suo ruolo. Da un simile sconfinamento non può che derivare un preoccupante vulnus al carattere di incisività che dovrebbero sempre poter vantare gli interventi presidenziali – anche in virtù della configurazione monocratica dell’organo di garanzia – rispetto alle “rotture” di tipo costituzionale che pure vengono a realizzarsi continuamente.
Esiste infatti un “potere implicito” – così viene giustificato in dottrina – sino a tempi recenti sconosciuto, il potere di esternazione, che in questi anni è letteralmente esploso nelle mani dei Presidenti, tanto da costringere i costituzionalisti a studiarne a fondo le implicazioni. Il potere di esternazione è un potere di fatto a sé stante rispetto a tutti gli altri formali poteri presidenziali. Le occasioni in cui può essere esercitato sono molteplici: si pensi, per esemplificare, all’inaugurazione di una nuova sede prefettizia piuttosto che al saluto rivolto al comitato che organizza il festeggiamento per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia e via discorrendo. In queste circostanze, il Capo dello Stato è uso svolgere discorsi e riflessioni dai contenuti più disparati, dalle implicazioni dell’impegno militare assunto dall’Italia con la NATO per l’intervento in Libia, al percorso che i partiti della sinistra dovrebbero intraprendere per diventare credibili partiti di governo. Omettendo di soppesare con prudenza un potere così delicato – si pensi alle patologiche esternazioni del Presidente “picconatore” Cossiga – il Capo dello Stato finisce per assumere un ruolo da protagonista rispetto alla situazione politica contingente, con il rischio di compromettere quella stessa funzione di garanzia generale che imporrebbe la sua estraneità alla contesa politica.
Se il Presidente intende comunicare con il Parlamento e, dunque, indirettamente con il Governo, esiste già uno strumento appropriato e di carattere formale, ossia il messaggio motivato, che può essere inviato alle Camere in qualsiasi momento e con la frequenza suggerita, di volta in volta, dal contesto politico e istituzionale. Il potere di esternazione invece, avendo una portata assai più vasta per via della sua libera configurazione, può riguardare un’infinità di aspetti legati alla dimensione strettamente politica, comprese possibili censure alle scelte del Governo e giudizi sulla condotta delle singole forze politiche, motivo per il quale il suo abuso comporta più facilmente un’invasione di campo all’interno del circuito politico.
La grande popolarità che può discendere da questo interventismo del Presidente della Repubblica, specialmente se le sue esternazioni cercano di venire incontro, di volta in volta, alla sensibilità dell’opinione pubblica (persino quando si tratta di rispondere dal sito online del Quirinale a due cittadini che si interrogano sul significato di un certo atto presidenziale), può essere pericolosa e induce a una riflessione di più lungo respiro. Questo tipo di popolarità, infatti, alimenta ed è alimentata da un’aspettativa politica che porta a pretendere con insistenza sempre maggiore dal Capo dello Stato risposte che dovrebbero invece venire dal circuito politico, al punto che questi, per assecondare la crescente aspettativa, finisce – suo malgrado – per danneggiare la dimensione super partes del ruolo di garanzia. Sicché, quando ricorre davvero la necessità di un intervento istituzionale di forte impatto, quando cioè si creano le condizioni per una ferma presa di posizione del rappresentante dell’unità nazionale, se il Presidente della Repubblica è già intervenuto continuamente nello scenario politico, esponendosi inesorabilmente alla critica della parzialità, il potere di garanzia che sarà in grado di esprimere ne risulterà inevitabilmente indebolito.
Non si deve tirare il Presidente della Repubblica “per la giacchetta”, ma è anche necessario che il Presidente della Repubblica non ci metta nella condizione di poterlo fare!
L’equivoco che, da qualche tempo, è sorto intorno al ruolo di garanzia espresso dal Capo dello Stato porta molti a pretendere il suo sistematico intervento per impedire od ostacolare singoli provvedimenti della maggioranza avvertiti come pericolosi e incostituzionali, senza considerare adeguatamente che, quando il Presidente non porta le sue azioni alle estreme conseguenze, spesso lo fa, dal suo punto di vista, a ragion veduta. È facile immaginare cosa potrebbe accadere se il Presidente della Repubblica disponesse il rinvio di una legge che sia frutto di una discussione aspra e contrastata in Parlamento. Ciò, nello stato in cui versa il nostro sistema istituzionale bipolare, verrebbe sicuramente letto non come l’intervento di un organo di garanzia, ma come l’autorevole sostegno esterno alla parte politica soccombente nelle aule parlamentari. Il problema è dunque proprio questo: il Presidente della Repubblica non deve essere percepito come un organo che interviene nella contesa politica. È del tutto evidente che se il Capo dello Stato evitasse continue esternazioni su qualsiasi aspetto dell’Universo -Mondo e si astenesse da incursioni di moral suasion durante l’esame parlamentare dei progetti di legge, aspettando invece che il Parlamento deliberi e facendo valere solo allora, in tutta la sua forza istituzionale, il libero e ampio potere di rinvio (anche eventualmente per profili di merito), darebbe al suo ruolo un’interpretazione conforme a quella dimensione di garanzia che prima ho cercato di tratteggiare.
Vi è dunque la necessità di ricostruire una cultura costituzionale di base e, per farlo, si può cominciare evidenziando due aspetti. Il primo è che il potere di esternazione dovrebbe essere utilizzato dal Capo dello Stato esclusivamente con riferimento agli atti formali, per spiegarne le ragioni e gli orizzonti. Non spetta invece al Presidente della Repubblica esercitare, tramite esternazioni sganciate dall’attività propriamente istituzionale, un’opera di moral suasion nei confronti del Parlamento e del Governo. La Costituzione ha dotato il Presidente della Repubblica di alcuni poteri specifici, perché essi potessero essere esercitati, nella loro pienezza, al momento debito. Il Capo dello Stato dovrebbe agire, in un certo senso, come è (sarebbe) richiesto ai giudici, che “parlano” attraverso le sentenze e gli altri provvedimenti formali e che, sino ad allora, sono (sarebbero) tenuti a controllare e a non anticipare il loro giudizio sui fatti che ricadono nella loro competenza d’ufficio. Il potere di controllo affidato al Presidente della Repubblica e la capacità di tale organo di difendere la Costituzione si rivelerebbero certamente più efficaci e meno sindacabili, almeno sotto il profilo del metodo, se fossero abbandonate alcune controproducenti prassi interlocutorie e se si tornasse a una maggiore consapevolezza del ruolo costituzionale attivo e non solo persuasivo di questo fondamentale organo di garanzia.
La seconda e ultima considerazione che voglio fare è di ordine più generale e riguarda la grave alterazione subita dal nostro sistema di governo parlamentare. Una delle più inquietanti distorsioni del governo parlamentare, ben oltre le critiche che si possono muovere ai meccanismi elettorali in sé considerati, deriva dall’idea sempre più radicata che il corpo elettorale non elegga in realtà solo i membri delle Camere ma scelga anche il vertice del Governo, al punto che quest’ultimo finisce per trovare, oramai persino fondata su di una espressa disposizione legislativa, una sorta di legittimazione diretta.
Il sistema di governo presidenziale nordamericano, cui spesso ci si illude di aver guardato, è cosa molto più sofisticata della cosiddetta legittimazione diretta del Presidente del Consiglio nostrano. In Italia abbiamo letteralmente “inventato” un meccanismo di governo tale per cui il corpo elettorale, di fatto, elegge contestualmente il Capo del Governo e la sua maggioranza. Questa invenzione, che potrebbe forse avere senso se calata nel contesto degli enti territoriali minori, diventa una follia quando si tratta di riorganizzare (per giunta surrettiziamente) l’assetto di governo dello Stato democratico.
Il vero problema è dunque proprio questo: cosa mai è diventata la democrazia parlamentare nel nostro Paese? È mia convinzione che il Presidente della Repubblica, questo Presidente in carica, stia cercando di fare quello che può, non senza eccessi di sovraesposizione e storture istituzionali, ma certo in un contesto totalmente disastrato del quale tutti dobbiamo avere piena contezza.